Proventi illeciti da tassare anche in assenza di una sentenza penale definitiva

Emiliano Marvulli - Imposte

I proventi illeciti devono essere tassati come redditi diversi, se non sono classificabili in una specifica categoria reddituale. Lo chiarisce la Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 829 del 13 gennaio 2023, basandosi sull'interpretazione autentica dell'art. 36, comma 34-bis, di. n. 223/2006

Proventi illeciti da tassare anche in assenza di una sentenza penale definitiva

I proventi derivanti da fatti illeciti, quali ad esempio l’appropriazione indebita, vanno comunque tassati come redditi diversi qualora non siano classificabili in una specifica categoria reddituale, in base a quanto espressamente stabilito dall’art. 36, comma 34-bis, di. n. 223/2006, norma quest’ultima avente efficacia retroattiva, in quanto interpretazione autentica dell’art. 14, comma 4, I. n. 537/1993.

La ripresa a tassazione è legittima anche in assenza di una sentenza di condanna passata in giudicato, in ossequio al principio di autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale.

Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 829 del 13 gennaio 2023.

La sentenza

Il caso riguarda l’impugnazione di un avviso di accertamento con cui l’Ufficio, sulla base di p.v.c. della G.d.F., innescato a sua volta da un procedimento penale nei confronti del contribuente, aveva recuperato a tassazione le somme derivanti dalla commissione del delitto di abuso d’ufficio in concorso con altri, con cui il soggetto ha dato luogo a un maggior reddito, inquadrabile nella categoria dei “redditi diversi”, quale provento illecito ai sensi dell’art. 14 della legge n. 537/1993 e successive modificazioni.

La controversia è giunta dinanzi alla CTR la quale, confermando la sentenza di primo grado, aveva respinto l’appello dell’Agenzia delle entrate ritenendo che la mancata definizione della questione penale, impediva di essere certi in ordine all’ammontare da sottoporre a tassazione tra i “redditi diversi” ai sensi dell’art. 14 della legge n. 537/93.

In altre parole secondo i giudici di merito non si poteva prescindere dal giudicato penale o, quantomeno, dalla presenza di elementi che potessero supportare adeguatamente l’esistenza dell’illecito fonte del provento illecitamente ottenuto.

Avverso tale decisione l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 14, comma 4, della legge n. 537/93, per avere la CTR ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento in questione in quanto, pure a fronte del substrato probatorio offerto dai militari verbalizzanti e recepito dall’Ufficio, non era stato definito il procedimento penale nei confronti del contribuente per appropriazione indebita.

A parere dell’Amministrazione finanziaria la separazione tra la sfera amministrativa e quella penale consente invece di procedere autonomamente alla contestazione del maggior reddito derivante da illecito, anche nell’ipotesi di mancato accertamento in sede penale della natura illecita della percezione delle somme di denaro da parte del contribuente.

La Corte di cassazione ha respinto la tesi della parte ricorrente e ha rigettato il ricorso.

Il thema decidendum della controversia ruota attorno alla definizione dell’art. 14, comma 4, della L n.537/1993, che, nella formulazione vigente ratione temporis, prevedeva che

“Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986 n. 9171 devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.”

Sulla classificazione fiscale dei proventi di natura illecita, la Corte di cassazione ha affermato il principio, al quale la sentenza in commento dà continuità, secondo cui i proventi derivanti da fatti illeciti, qualora non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui all’art. 6, primo comma, d.P.R. n. 917/1986, vanno, comunque, considerati come redditi diversi, in base a quanto espressamente stabilito dall’art. 36, comma 34-bis, di. n. 223/2006, norma quest’ultima avente efficacia retroattiva, in quanto interpretazione autentica dell’art. 14, comma 4, I. n. 537/1993.

A tal fine non occorre che la sussistenza del delitto presupposto sia accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente che “il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo e che il giudice procedente ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza.”

Il giudice d’appello non si è conformato a tale principio perché ha escluso la rilevanza fiscale dei rilievi contenuti nel p.v.c., con cui la Guardia di Finanza ha constatato la derivazione del provento dalla fattispecie penalmente rilevante dell’appropriazione indebita, perché non era ancora definita la questione penale.

In tal modo il giudice del rinvio ha omesso di operare, in ossequio al principio di autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, una valutazione incidentale della sussistenza o meno nei confronti del contribuente degli estremi del reato di appropriazione illecita quale assunta fonte del provento recuperato a tassazione nella categoria dei “redditi diversi”.

In conclusione la Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso prospettato dall’Agenzia delle entrate e ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.

Corte di Cassazione - Ordinanza n. 829 del 13 gennaio 2023
I proventi illeciti devono essere tassati come redditi diversi, se non sono classificabili in una specifica categoria reddituale. L’Ordinanza si basa sull’interpretazione autentica dell’art. 36, comma 34-bis, di. n. 223/2006.

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