Il principio dell’onere della prova nel processo tributario

Focus sul principio dell'onere della prova nel processo tributario, anche alla luce delle novità introdotte con la riforma della giustizia tributaria

Il principio dell'onere della prova nel processo tributario

In materia di riparto onere della prova nel processo, la recente riforma della Giustizia tributaria ha introdotto novità che possono indurre a riflessioni più generali.

Nell’art. 7, Dlgs. 31 dicembre 1992, n. 546 è stato in particolare introdotto il comma 6, ove si prevede che:

  • l’Amministrazione finanziaria prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato;
  • il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria, o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni;
  • spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.

La modifica normativa, anche se importante sul piano della chiarezza, a dire il vero, non modifica di molto l’attuale stato giuridico, laddove il principio dell’onere della prova è stato ormai da tempo già chiarito dalla Cassazione, che ha più volte indicato che in giudizio spetta al fisco provare la fondatezza delle proprie contestazioni.

La regola della distribuzione dell’onere della prova nel processo tributario

Anche nel processo tributario vale peraltro, naturalmente, la regola generale in tema di distribuzione dell’onere della prova dettata dall’art. 2697 cod. civ., e, pertanto, in applicazione della stessa, l’Amministrazione Finanziaria, che vanti un credito nei confronti del contribuente, è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa.

Così come, sul fronte opposto e come ribadito ora nella citata modifica normativa, spetta al contribuente provare il proprio diritto al rimborso.

Tale ripartizione è del resto conseguenza del ruolo di attore formale/sostanziale, che, rispettivamente, rivestono Amministrazione finanziaria e contribuente in caso di processo avente ad oggetto un avviso di accertamento o un diniego di rimborso.

Bisogna infatti ricordare che nel processo tributario, avendo l’avviso una funzione di provocatio ad opponendum, l’Amministrazione è in realtà attore sostanziale e il vero thema decidendum è individuato nell’avviso di accertamento, ancor prima che nel ricorso.

È quindi normale che debba essere la stessa Amministrazione a fornire la prova della propria pretesa.

Laddove invece si tratti di ricorso su silenzio rifiuto su istanza di rimborso, è il contribuente che riveste ha posizione di attore sostanziale (e non solo formale, come invece accade in caso di notifica di avviso di accertamento).

In tal caso, quindi, non si sta parlando di documenti da opporre alla pretesa impositiva dell’Amministrazione, ma proprio di nuove prove a sostegno della pretesa del contribuente, come originariamente avanzata in sede di rimborso.

In presenza, quindi, di un avviso di accertamento, a fronte delle contestazioni mosse dal contribuente circa l’attendibilità degli esiti istruttori, l’onere di dimostrare la legittimità della pretesa fiscale ricade (sia oggi che ieri) in capo all’Amministrazione Finanziaria.

Come detto, anche in campo tributario vigono infatti, da sempre, i principi generali della prova, che comportano che la responsabilità e l’onere della prova grava su chi afferma o pretende qualcosa (art. 2697 c.c.).

Ciò significa che se un contribuente afferma di avere diritto ad una deduzione o di avere effettuato una determinata spesa, che l’Ufficio non gli ha riconosciuto, graverà su quest’ultimo l’onere di provare di avere effettivamente sostenuto quel costo o di trovarsi nelle condizioni per poter usufruire di quella deduzione.

Allo stesso modo, grava sull’Ufficio finanziario l’onere di trovare le prove e gli elementi che confermano la propria pretesa tributaria.

È bene del resto evidenziare che, in materia tributaria, il ruolo delle cosiddette prove “atipiche” è (e resta) molto importante.

Conferma di ciò si rinviene per esempio negli artt. 37, 39 e 41 del Dpr. n. 600/1973, che non sono stati modificati e che attribuiscono agli uffici il potere di procedere a rettifica non solo sulla base di processi verbali di constatazione, o sulle dichiarazioni delle parti, o sui documenti da loro prodotti, ma anche sulla base di “qualunque dato o notizia comunque raccolto o venuto in loro possesso”, essendo così normativamente prevista una categoria residuale in cui si può far rientrare qualsiasi prova (o quanto meno qualsiasi elemento di prova).

Analoga previsione è contenuta poi negli artt. 54 e 55 del Dpr. n. 633/1972, in materia di IVA, nonché nell’art. 51 in materia di imposta di registro (Dpr. 26 aprile 1986, n. 131), dove, in particolare, il legislatore ha dato la facoltà all’ufficio finanziario di rettificare i valori dichiarati dalle parti anche in virtù di “ogni altro elemento di valutazione ...” (categoria, dunque, assolutamente indeterminata).

La funzione della prova è del resto quella di consentire il controllo della verità di una affermazione e/o pretesa.

E tale controllo può avvenire in via giudiziaria, all’interno del processo, o anche in via preventiva (normativa), per mezzo di prove precostituite ex lege.

Le diverse tipologie di prova

In generale e dal punto di vista strutturale, le prove si distinguono quindi in:

  • prove dirette, quali quelle attraverso le quali il giudice percepisce direttamente i fatti sui quali si basano le pretese delle parti. La prova diretta è, per definizione, “attendibile”, in quanto tra il giudice e la realtà percepita non vi è alcuna forma di intermediazione;
  • prove indirette o rappresentative, invece, sono quelle in cui il giudice non percepisce direttamente il fatto da provare. Non percepisce cioè direttamente il fatto storico, ma soltanto una sua rappresentazione mediata, attraverso per esempio un documento (prova documentale), o la narrazione di un testimone (prova testimoniale, laddove ammessa), o delle stesse parti. Nella prova indiretta, il giudice deve quindi porsi il problema dell’attendibilità, dato che la testimonianza di una persona può anche essere non veritiera e la rappresentazione documentale può essere ideologicamente o materialmente falsa;
  • prove legali e prove liberamente valutabili, a seconda che gli effetti probatori siano previsti direttamente dalla legge, o debbano essere prudentemente apprezzati dal giudice;
  • prova critica o indiziaria, infine, è quella che, attraverso un ragionamento presuntivo, consente di risalire al fatto da appurare.

In quest’ultimo caso si parla appunto di prova presuntiva, laddove l’onere della prova a carico dell’Amministrazione Finanziaria si considera comunque soddisfatto quando “tra il fatto noto e il fatto ignoto non occorre che sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità” (cfr., Cass.9961/96; Cass. 2700/97; Cass. 5082/97).

La prova per presunzioni, tipica del processo tributario, è quindi una prova critica, basata su di un procedimento d’ordine logico, che, partendo da uno o più fatti noti o certi, permette di desumere, in via di ragionevole consequenzialità, l’esistenza del fatto ignoto.

E non a caso anche la recente modifica normativa ritiene sufficiente anche la presenza di “elementi di prova”.

Quanto più alta è dunque la probabilità che il fatto ignoto sia realmente conseguenza del fatto noto, tanto maggiore è la rilevanza probatoria della presunzione.

In tema di prova per presunzioni, il giudice, chiamato a esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento dei fatti, deve comunque sempre esplicitare il criterio logico posto a base del suo convincimento, tenendo conto che il relativo procedimento è articolato in due momenti valutativi: il primo, di tipo analitico, volto a selezionare gli elementi che presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria, il secondo, di tipo sintetico, tendente ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva.

La Cassazione, sempre in tema di prove presuntive, ha comunque già avuto modo di chiarire che non esiste il divieto delle c.d. presunzioni di secondo grado (Cass., n. 5798 del 03/03/2020; Cass. 01/08/2019, n. 20748).

La sussistenza nell’ordinamento del cosiddetto “divieto di presunzioni di secondo grado o a catena” , è stata esclusa in quanto il principio praesumptum de praesumpto non admittitur non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 cod. civ., né a qualsiasi altra norma dell’ordinamento (cfr., Cass. n. 18915, n. 17166, n. 17165, n. 17164, n. 1289, n. 983 del 2015 e Cass. 16/06/2017, n. 15003).

Resta il fatto però che, a norma dell’art. 2729 c.c., il giudice deve ammettere solo presunzioni gravi precise e concordanti, laddove l’esistenza di indizi idonei a fondare un elemento di prova, forniti dall’Amministrazione a sostegno dell’accertamento induttivo, comporta l’inversione dell’onere della prova solo laddove i suddetti elementi siano effettivamente tali (ossia idonei a fondare un elemento di prova), non potendo ovviamente ammettersi che l’Amministrazione possa fondare un accertamento su qualunque elemento, anche privo di qualsivoglia valore indiziario, determinando perciò solo l’inversione dell’onere probatorio.

L’applicazione delle regole sulla prova per presunzioni nel processo tributario

In conclusione, quanto alla corretta applicazione delle regole in tema di prova per presunzioni, nel processo tributario, per la formazione della prova critica:

  • la “precisione” va riferita all’indizio costituente il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso sia ben determinato nella realtà storica;
  • la « “gravità” » va ricollegata al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto, che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere da quello noto;
  • e la “concordanza” , infine, richiede che il fatto ignoto sia, di regola, desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr., Cass. n. 15454 e n. 2482 del 2019 - anche se, a ben vedere, a fondare l’accertamento è in teoria sufficiente anche soltanto un solo fatto, qualora presenti i requisiti della gravità e precisione, cfr., Cass., n. 2082 del 30/1/2014; Cass., n. 4472 del 26/3/2003).

Non dimentichiamo, infine, che il processo tributario non è un processo di impugnazione/annullamento, ma di impugnazione/merito.

Ne consegue quindi che i giudici, laddove ritengano non sussistente la prova presuntiva del reddito a carico del contribuente, come accertato nell’atto opposto, devono in ogni caso verificare se gli elementi indiziari presenti agli atti siano (o meno) comunque idonei a fondare la prova presuntiva di un qualsiasi altro reddito non dichiarato, ancorché, in ipotesi, di natura diversa e/o, eventualmente, di entità diversa da quella indicata nell’avviso di accertamento.

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