Dumping salariale: che cos’è e da quali fattori può derivare

Rosy D’Elia - Lavoro

Che cos'è il dumping salariale e come funziona? In estrema sintesi, consiste nella svalutazione del salario a cui si applicano regole diverse e costi più bassi rispetto a quelli del paese di provenienza del lavoratore o della lavoratrice. Dalla definizione ai fattori che possono determinarlo: un focus sul tema

Dumping salariale: che cos'è e da quali fattori può derivare

Con il termine dumping salariale si indica lo sbilanciamento tra lo stipendio percepito da un lavoratore o da una lavoratrice in base alle regole meno vantaggiose del mercato del lavoro estero rispetto a quello a cui avrebbe diritto con i parametri del paese di origine. Il risultato, quindi, è una svalutazione del lavoro.

Alla base di questa pratica c’è una disparità di regole che ha conseguenze negative non solo sulla retribuzione, ma anche sui diritti dei lavoratori e sulla previdenza sociale.

La parola dumping deriva dal termine inglese to dump e, in linea generale, indica una pratica commerciale scorretta che prevede prezzi più vantaggiosi sui mercati esteri rispetto a quelli che si praticano nel mercato interno.

La definizione, poi, assume sfumature diverse in base al contesto in cui il termine è utilizzato. Esiste, ad esempio, anche il dumping fiscale che si può riassumere in una concorrenza sleale tra i sistemi di tassazione di più paesi.

Che cos’è il dumping salariale?

Il dumping salariale è uno dei temi ricorrenti nelle discussioni legate all’istituzione del salario minimo in Italia, che ritorna periodicamente sotto i riflettori ormai da anni.

D’altronde l’ex Ministra del Lavoro delle Politiche Sociali, Nunzia Catalfo, già nel 2018 aveva dato il nome a un Disegno di Legge sul tema. E nonostante la collega attualmente in carica, Marina Calderone, si sia più volte dichiarata fermamente contraria all’introduzione di una soglia retributiva minima da rispettare per la paga oraria, il tema torna ciclicamente al centro dell’attenzione.

Non solo in Italia. Il Consiglio UE, infatti, lo scorso ottobre ha dato il via libera a una direttiva finalizzata proprio a promuovere negli Stati membri l’adeguatezza dei salari minimi. C’è da specificare, però, che non è stato raggiunto un accordo per uno standard condiviso: a decidere il livello minimo saranno i singoli Paesi che, entro il 2024, dovranno recepire quanto concordato in Europa. Inoltre dove il tasso di copertura della contrattazione collettiva è inferiore all’80 per cento, caso che non riguarda l’Italia, è necessario adottare un piano per estenderla.

Nel nostro paese, infatti, le regole sulla retribuzione minima vengono stabilite dalla contrattazione nazionale che, pur riguardando la maggior parte di lavoratori e lavoratrici, lascia ancora delle zone scoperte.

Tra gli effetti negativi di chi si pone in una posizione contraria rispetto al salario minimo, viene menzionato anche il dumping salariale.

In termini pratici è la svalutazione dello stipendio di un lavoratore che viene spostato all’estero, su un mercato che garantisce all’azienda un costo del lavoro molto più basso rispetto al paese di provenienza.

Come si legge nei dati Eurostat, all’interno dell’Unione Europea il costo orario di un lavoratore, che comprende retribuzioni, compensi in denaro e in natura, contributi sociali a carico del datore di lavoro, costi della formazione professionale e altre spese, passa dagli 8,2 euro della Bulgaria ai 50,7 euro del Lussemburgo.

Il dumping salariale è una pratica collegata a strategie di delocalizzazione che permettono al datore di lavoro di aumentare gli utili dell’impresa, avere costi più bassi ed essere più competitivo sul mercato. Vantaggi che si traducono in una perdita di valore dello stipendio per il lavoratore.

Salario minimo e dumping salariale: cos’è che li mette in relazione?

Il concetto si collega al tema del salario minimo come conseguenza dell’aumento del costo del lavoro per le imprese.

Secondo uno studio elaborato dall’Ordine Nazionale e Consiglio dei Consulenti del Lavoro nel 2019, che al tempo vedeva l’attuale Ministra del Lavoro delle Politiche Sociali come presidente dell’Ordine, portare la paga oraria a un minimo di 9 euro comporterebbe maggiori costi pari a 5,5 miliardi di euro. E potrebbe creare un effetto boomerang.

In ogni caso un’azione condivisa, di cui la direttiva UE approvata a ottobre 2022 rappresenta un primo passo, è la strada per evitare pratiche di sbilanciamento.

Nella relazione del 2016 sul dumping sociale a cura della Commissione Europea si legge:

“Tale nozione copre un’ampia gamma di pratiche intenzionalmente abusive e l’elusione della legislazione europea e nazionale vigente (comprese le leggi e i contratti collettivi universalmente applicabili), che permettono lo sviluppo di una concorrenza sleale riducendo illegalmente i costi operativi e legati alla manodopera e danno luogo a violazioni dei diritti dei lavoratori e allo sfruttamento di questi ultimi”.

Il dumping, nella sua definizione più ampia, è una questione aperta da anni per l’Europa. Stabilire il principio della parità di retribuzione a parità di condizioni dovrebbe essere per gli Stati UE la via per contrastare questa distorsione del mercato del lavoro.

La sfida, in primis per i singoli paesi, è un bilanciamento dei valori. Trovare il punto critico in cui c’è un equilibrio tra costo del lavoro e benefici per il lavoratore è la via per abbattere i presupposti del dumping salariale. Ma certamente non è semplice.

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