I tagli alla rivalutazione degli importi fanno perdere ai pensionati circa un anno di assegni. Lo studio di Itinerari Previdenziali

I pensionati con trattamenti sopra i 2.500 euro lordi subiscono una perdita legata alla mancata rivalutazione quantificabile in almeno 13.000 euro nei prossimi 10 anni.
Un valore destinato a salire progressivamente fino a 115.000 euro per chi percepisce un assegno oltre i 10mila euro lordi, circa 6.000 euro di netto.
A fornire un quadro della situazione è lo studio “La svalutazione delle pensioni in Italia” realizzato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali in collaborazione con CIDA.
Il report denuncia una svalutazione strutturale delle pensioni medio-alte, che danneggia soprattutto il ceto medio.
Pensioni: la mancata rivalutazione per i redditi alti costa un anno di assegni
Come ogni anno, in questo periodo pensionati e pensionate cominciano a pensare alla rivalutazione degli assegni in adeguamento all’inflazione.
Per il 2026, secondo le prime stime, all’adeguamento dovrebbe corrispondere un aumento dell’1,7 per cento, contro quello dello 0,8 per cento di quest’anno. Ma a far discutere negli ultimi giorni è lo stesso meccanismo di rivalutazione degli importi. A scattare una precisa fotografia della situazione è il report “La svalutazione delle pensioni in Italia” di Itinerari Previdenziali, in collaborazione con CIDA.
Lo studio si concentra principale sugli effetti della rivalutazione per i pensionati con redditi oltre i 2.500 euro, evidenziando una pesante svalutazione degli assegni, soprattutto in relazione agli schemi di perequazione automatica adottati dal Governo Meloni per gli anni 2023 e 2024, i quali hanno previsto un’indicizzazione ridotta per gli importi oltre 4 volte il minimo INPS per favorire gli assegni più bassi.
Come indicato nel report, sono più di 3,5 milioni i pensionati e le pensionate con assegni oltre i 2.500 euro lordi e che nel corso degli ultimi 30 anni hanno subito perdite legate ad una rivalutazione ridotta o mancata.
La penalizzazione maggiore è arrivata con la Legge di Bilancio 2024. Secondo il Centro Studi, la perdita legata alla mancata rivalutazione sarebbe quantificabile nei prossimi 10 anni in almeno 13.000 euro. Un valore destinato a salire progressivamente fino ai 115.000 euro per chi riceve un assegno oltre i 10.000 euro lordi (circa 6.000 di netto).
Un taglio, quello del 2023 e del 2024, che la Corte Costituzionale (sentenza n. 19/2025) ha ritenuto legittima l’introduzione di misure di “raffreddamento” della rivalutazione automatica delle pensioni superiori a quattro volte il minimo INPS perché, per un periodo limitato, considerato il periodo di forte spinta inflazionistica, ha salvaguardato integralmente le pensioni più basse.
Dopo i tagli del 2023 e del 2024, quest’anno l’indicizzazione delle pensioni è tornata ad essere effettuata secondo lo schema precedente, organizzato su tre fasce di reddito, ed è questo schema che si prospetta verrà confermato anche per il 2026:
- 100 per cento per i trattamenti fino a 4 volte il trattamento minimo;
- 90 per cento per quelli tra 4 e 5 volte il minimo;
- 75 per cento per quelli superiori a 6 volte il minimo.
Un ritorno alla “normalità” che però rimedia alla situazione creata nel biennio precedente, come evidenziato da Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali.
“Non si tratta di una perdita circoscritta a 2023 e 2024 ma di una sottrazione di reddito pensionistico permanente nel tempo e destinata anzi a trascinarsi anche negli anni successivi.”
“Cosa ancora più grave” – puntualizza Brambilla – “è che la perequazione sfavorevole è stata applicata sull’intero reddito pensionistico e non per scaglioni”.
“Giusto per fare un esempio riferito al 2023, un pensionato con una rendita pari tra 2.627 e 3.152 euro si è visto rivalutata l’intera pensione al 4,3% (a fronte di un tasso di inflazione definitivo dell’8,1%), e non la sola quota eccedente le 5 volte il TM.”
Ma la questione non riguarda solo il triennio 2023-2025 dove è stata solo accentuata ma riguarda una lunga serie i tagli bipartisan. Considerate le mancate indicizzazioni dal 2012 al 2022, si legge nel report, i trattamenti pensionistici oltre le 10 volte il minimo hanno perso rispetto a un’inflazione totale dell’11,6 per cento circa 9 punti percentuali.
Sommando il tutto si arriva ad una svalutazione delle pensioni di oltre il 21 per cento nell’arco di 14 anni. “Volendo fare un esempio concreto, ciò significa che in questo periodo di tempo una pensione da 10.000 euro lordi (circa 6.000 netti) ha perso quasi 178.000 euro, mentre una pensione da 5.500 euro lordi mensili (circa 3.400 euro netti) ha subito una perdita pari a circa 96.000 euro.”
Pensioni: come potrebbe cambiare il meccanismo di rivalutazione
Come evidenziato dal presidente del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali, il meccanismo di rivalutazione agisce sull’intero reddito pensionistico e non per scaglioni ed è proprio questo aspetto che potrebbe essere destinato a cambiare.
A sollevare un nuovo caso è stata, infatti, l’ordinanza del Tribunale di Trento del 30 giugno 2025, con la quale si chiede alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla questione.
Questione che appunto non riguarda la legittimità costituzionale del taglio deciso e applicato per il 2023 e il 2024 ma direttamente il meccanismo di perequazione automatica delle pensioni.
Il caso sollevato contesta quindi la scelta di rivalutare le pensioni per blocchi, applicando perciò un’aliquota fissa all’intero importo dell’assegno, e non una progressiva per scaglioni, come accade ad esempio per l’IRPEF, dove le aliquote variano in base alle diverse fasce.
La Consulta è dunque chiamata ad esprimersi su tale aspetto e se dovesse ritenere il modello illegittimo l’intero meccanismo di rivalutazione degli importi dovrà essere rivisto.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Pensioni: la mancata rivalutazione per i redditi alti costa un anno di assegni