Rinviata alle Sezioni Unite la questione della motivazione sugli interessi delle cartelle di pagamento

Motivazione sugli interessi delle cartelle di pagamento: la questione, al centro dei fatti dell'Ordinanza della Corte di Cassazione numero 31960 del 2021, rimandata alle Sezioni Unite.

Rinviata alle Sezioni Unite la questione della motivazione sugli interessi delle cartelle di pagamento

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 31960 del 5 novembre 2021, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione della motivazione sugli interessi delle cartelle, sulla quale gli indirizzi di legittimità sono ancora incerti e contraddittori.

Nel caso di specie, i contribuenti impugnavano, dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale la cartella di pagamento, con la quale era stata loro richiesta la somma di Euro 55.343,22, a titolo di imposta di registro, ipotecaria e catastale, nonché di interessi.

Tale credito era stato iscritto a ruolo sulla base di un avviso di liquidazione con cui l’Ufficio del Registro aveva revocato i benefici fiscali per la piccola proprietà contadina, dei quali i contribuenti avevano usufruito in relazione ad un atto di compravendita immobiliare, anch’esso impugnato dai contribuenti con giudizio conclusosi, nonostante l’esito favorevole dei primi due gradi dello stesso, con decisione sfavorevole della Commissione Tributaria Centrale.

Corte di cassazione - Ordinanza numero 31960 del 5 novembre 2021
Il testo dell’Ordinanza della Corte di Cassazione numero 31960 del 5 novembre 2021

La motivazione sugli interessi delle cartelle di pagamento: i fatti dell’Ordinanza n. 31960 del 2021

Il ricorso veniva respinto dal giudice di primo grado, con sentenza poi confermata dalla Commissione Tributaria Regionale, sul rilievo che la cartella impugnata era adeguatamente motivata, anche con riferimento ai pretesi interessi, dovuti per legge e calcolati al tasso legale.

Avverso tale sentenza i contribuenti proponevano infine ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, la violazione degli artt. 3, L. n. 241 del 1991 e 7, L. n. 212 del 2000, stante la nullità della cartella di pagamento priva di adeguata motivazione, in quanto non esplicitava le modalità di calcolo degli interessi richiesti sulla somma dovuta a titolo di imposta. E questo anche considerato, rilevavano i ricorrenti, che l’Amministrazione finanziaria, assumendo la veste di attore, era tenuta a dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi del credito vantato.

Infine, con altro motivo di impugnazione, i ricorrenti deducevano anche la violazione dell’art. 24 della Costituzione, in quanto, mancando un prospetto analitico degli interessi applicati, non era dato ai contribuenti verificare e, quindi, contestare la correttezza della somma a tale titolo richiesta.

Tanto premesso, i giudici di legittimità evidenziano che, nel caso in cui l’obbligazione tributaria - quella di cui al prodromico avviso di liquidazione - non sia assolta nel termine stabilito dal legislatore, deve considerarsi sorto il diritto dell’Amministrazione agli interessi di mora, che, per quanto concerne tasse e imposte indirette, l’art. 55, Dpr. n. 131 del 1986, disciplina, per misura e decorrenza, attraverso il richiamo alla L. n. 29 del 1961, autenticamente interpretata dalla L. n. 147 del 1962, delineando così un sistema che esclude ogni margine di discrezionalità.

La questione poi dell’onere della prova era mal posta, atteso il principio secondo cui

la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass. n. 13395/2018)

Ma, nel caso di specie, la pretesa tributaria, quanto alla originaria sorte capitale, non era in discussione, essendo oggetto di contrasto solo la quantificazione degli accessori che, come detto, seguivano il credito per legge.

Quanto infine alla questione dell’obbligo di motivazione della cartella di pagamento relativamente ad interessi richiesti per ritardato pagamento di tributi, laddove, secondo i ricorrenti, la cartella non recava indicazioni sufficienti (giorni, tassi d’interesse, imponibile, aliquote, ecc.) al fine di verificare la correttezza delle somme iscritte a ruolo, evidenziando il fatto che nell’atto impugnato veniva riportato solo l’importo totale degli interessi applicati e non un prospetto analitico, anche sintetico, che spiegasse modalità, tassi e criteri seguiti nella loro determinazione, la Cassazione rileva che, riguardo a tale obbligo, la CTR aveva affermato che

“le somme indicate in cartella corrispondono a quelle riportate nell’originario avviso di liquidazione, convertite in euro e maggiorate degli interessi dovuti per legge, quindi, al tasso legale" ed inoltre che «non risulta dimostrato che l’ufficio abbia richiesto un tasso superiore a quello di legge, o abbia calcolato interessi su interessi (cd. anatocismo), come adombrato dal ricorrente in udienza”

Rinviata alle Sezioni Unite la questione della motivazione sugli interessi delle cartelle di pagamento

La decisione impugnata aveva quindi ritenuto legittima la cartella di pagamento perché il metodo seguito dall’Amministrazione finanziaria per la liquidazione degli accessori risultava agevolmente controllabile dal contribuente, essendo la misura degli interessi applicati predeterminata dalla legge, per cui la liquidazione si risolveva in una mera operazione matematica, di natura tipicamente riscossiva.

Inoltre, osservava il giudice di appello, la cartella di pagamento, riproduttiva del ruolo, richiamava l’avviso di liquidazione prodromico, esplicitando le ragioni della debenza dei tributi ed indicando anche l’atto notarile presentato alla registrazione a cui la pretesa fiscale si riferiva, in tal modo rendendone conoscibili i presupposti di fatto e di diritto.

La cartella informava poi pure che “Per ogni giorno di ritardo vanno aggiunti gli interessi di mora (calcolati a partire dalla data di notifica della presente cartella e i maggiori costi del servizio di riscossione)”, che “le spese di notifica rappresentano il costo del servizio di notifica della cartella di pagamento svolto dall’Agente della riscossione (normativa di riferimento: art. 17, comma 7 ter, del D.Lgs. n. 112/1999)”, e che erano dovuti dal destinatario dell’atto anche “i compensi del servizio di riscossione (o aggio di riscossione)”, in misura diversa (4,65 per cento e 9 per cento) a seconda che il pagamento intervenisse entro la scadenza o in ritardo, ed ancora che “gli interessi di mora sono dovuti dal contribuente, in aggiunta alle somme iscritte a ruolo, qualora non effettui il pagamento entro sessanta giorni dalla data di notifica” e fino al giorno dell’effettivo pagamento, ed infine che “il tasso di interesse applicato viene determinato con apposito atto normativo (normativa di riferimento art. 30 D.P.R. n. 602/1973 e norme correlate)”.

La Suprema Corte, evidenzia quindi che le argomentazioni svolte dal giudice di appello apparivano riconducibili all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo il quale è legittimo il riferimento al calcolo degli interessi maturati ex lege ove sia incontestata la sorte capitale (proveniente dal precedente atto impositivo o da dichiarazione dello stesso contribuente) e il periodo per il quale sono maturati gli interessi, risolvendosi in tal caso la determinazione degli accessori in una mera operazione matematica, che consente il raffronto con i tassi determinati ex lege,e per la quale non ricorre quindi l’obbligo di specifica motivazione.

In tal senso si è espressa la Corte, osservando che “la cartella di pagamento deve ritenersi congruamente motivata, quanto al calcolo degli interessi, mediante il richiamo alla dichiarazione dalla quale deriva il debito di imposta ed al conseguente periodo di competenza, essendo il criterio di liquidazione degli stessi predeterminato ex lege e risolvendosi, pertanto, la relativa applicazione in un’operazione matematica” (Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8508; Cass., Sez. V, 8 marzo 2019, n. 6812; Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236).

In base a tale indirizzo, pertanto, “il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l’effetto che l’onere di motivazione può considerarsi in questi casi assolto dall’Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima. Tale principio, mutatis mutandis, è valido anche per la specie in quanto il richiamo (contenuto nella cartella) all’atto impositivo divenuto definitivo svolge la stessa funzione della “dichiarazione” quanto alla “condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale”, anche ai fini del controllo (meramente aritmetico) della esattezza delle somme richieste (come nel caso) per “interessi.., per ritardato o omesso pagamento” sulle imposte indicate in detto atto impositivo (Cass., Sez. V, 15 aprile 2011, n. 8613)”.

Secondo tale indirizzo, persino ove manchi l’emissione del decreto ministeriale che determina annualmente la misura degli interessi di mora computabili dalla notifica della cartella fino alla data del pagamento, il tasso viene del resto determinato ex lege sulla base del tasso fissato dall’ultimo decreto pubblicato, che resta dunque efficace fino alla deliberazione del nuovo provvedimento (cfr., Cass., Sez. V, 6 agosto 2020, n. 16778), così consentendo in ogni caso al contribuente di controllare quale sia il tasso di interesse applicato (cfr., Cass. n. 9764/2021).

La Cassazione ha poi anche affermato che dal combinato disposto normativo si ricava che il “tasso ... annuo” degli interessi è noto e conoscibile perché determinato con provvedimento generale, e che i limiti temporali di riferimento (dies a quo e dies ad quem), necessari per il calcolo, sono anch’essi fissati in elementi cronologici ben individuati (“giorno successivo a quello di scadenza del pagamento» e "data di consegna ... dei ruoli”, rispettivamente), dovendo quindi ribadirsi il principio, specificamente affermato, con riferimento all’obbligo di motivazione della cartella di pagamento (Dpr. n. 602 del 1973, artt. 12 e 25), secondo cui (cfr., Cass., 18 dicembre 2009 n. 26671) “nell’ipotesi in cui vengano richiesti gli interessi e le sovrattasse per ritardato o omesso pagamento il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l’effetto che l’onere di motivazione può considerarsi in questi casi assolto dall’Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima” (Cass. n. 8613/2011).

Tanto premesso, la Suprema Corte rileva però che, secondo altro indirizzo giurisprudenziale, “La cartella esattoriale fondata su una sentenza passata in giudicato deve essere motivata nella parte in cui mediante la stessa venga anche richiesto per la prima volta il pagamento di crediti diversi da quelli oggetto dell’atto impositivo oggetto del giudizio, come quelli afferenti gli interessi per i quali deve essere indicato, pertanto, il criterio di calcolo seguito” (Cass. n. 21851/2018, n. 28276/2013).

Tale indirizzo ha osservato, in particolare, che, “con riferimento alla cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato, il richiamo alla pronuncia giudiziale e all’atto impositivo su cui la stessa è intervenuta, risulta idoneo ad assolvere all’onere motivazionale solo limitatamente alla parte del credito erariale fatto valere interessato dall’accertamento, divenuto definitivo, compiuto dal giudice, ma non anche alle altre ulteriori voci di credito che non sono state in precedenza richieste; infatti, relativamente a tali voci, è con la cartella di pagamento che, per la prima volta, viene esercitata la pretesa impositiva, con la conseguenza che il criterio utilizzato per la loro individuazione e quantificazione deve essere ivi esplicitato e posto a conoscenza del contribuente; in applicazione di tali principi, deve concludersi che la cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato deve essere motivata in ordine al criterio utilizzato per la quantificazione degli interessi richiesti per la prima volta con tale atto, dal momento che il contribuente dev’essere messo in grado di verificare la correttezza del calcolo degli interessi medesimi (cfr. Cass., ord., 22 giugno 2017, n. 15554; Cass. 21 marzo 2012, n. 4516; Cass. 9 aprile 2009, n. 8651)” (Cass. n. 21851/2018).

Nello stesso senso si è espressa poi anche la sentenza Cass., n. 17767/2018, con la quale si è evidenziato che, nel caso allora esaminato, “il debito scaturiva da una sentenza definitiva della Commissione tributaria centrale, e secondo il superiore principio di diritto la semplice pubblicazione dei tassi d’interesse secondo le modalità previste nel lungo periodo considerato (28 anni) non consentiva al contribuente di comprendere i diversi metodi di calcolo applicati negli anni, ovvero i tassi d’interesse operanti nei periodi considerati, così obbligando il medesimo contribuente ad attingere aliunde le nozioni giuridiche necessarie per ricostruire il metodo seguito dall’ufficio”.

In analoga controversia, la Corte aveva inoltre confermato la decisione del giudice d’appello, favorevole alla tesi del contribuente, sul rilievo “che nella cartella viene riportata solo la cifra globale degli interessi dovuti, senza essere indicato come si è arrivati a tale calcolo, non specificando le singole aliquote prese a base delle varie annualità, essendo l’accertamento riferito all’anno d’imposta 1976, concernendo dunque un periodo di 35 anni, ed hanno ritenuto, perciò, che l’operato dell’ufficio era ricostruibile "attraverso difficili indagini dovute anche alla vetustà della questione che non competevano al contribuente che vedeva così, violato il suo diritto di difesa. Tale ratio decidendi, secondo cui il computo degli interessi è criptico e non comprensibile anche in ragione del lungo periodo considerato, non è incisa dal solo richiamo al DPR n. 602 dei 1973, art. 20, venendo in rilievo non la spettanza degli interessi, ma, proprio, il modo con cui è stato calcolato il totale riportato nella cartella” (Cass. n. 15554/2017, ma anche n. 5416/2021 e n. 8611/2009).

In conclusione, pur considerando le peculiarità delle diverse fattispecie e la necessità di differenziare l’obbligo di motivazione a seconda del contenuto prescritto per ciascun tipo di atto, il Collegio ha ritenuto sussistenti le condizioni per la rimessione della causa al Primo Presidente della Cassazione, affinché valuti l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, stante l’esigenza di rendere effettiva e incisiva la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, attraverso l’enunciazione di un principio di diritto, rispetto ad una questione ancora incerta nella sua soluzione e destinata a riproporsi in numerose controversie

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