Dal reddito di libertà ai bonus assunzioni: i “bug” degli strumenti a sostegno delle donne

Rosy D’Elia - Leggi e prassi

Dal reddito di libertà ai bonus assunzioni: sono diversi i “bug”, gli errori di progettazione, degli strumenti a sostegno delle donne che ne compromettono l'efficacia. Uno su tutti? La scarsa attenzione alle inattive. In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne 2021 un'analisi delle misure messe in campo dal Legislatore negli ultimi anni.

Dal reddito di libertà ai bonus assunzioni: i “bug” degli strumenti a sostegno delle donne

Dal reddito di libertà ai bonus assunzioni: sono diversi i “bug”, gli errori di progettazione per dirlo in termini informatici, degli strumenti di sostegno alle donne e all’occupazione femminile e interessano sia le singole misure che il sistema nel suo complesso.

Una falla su tutte? Una scarsa attenzione al contesto sociale, culturale ed economico in cui ogni intervento va inserito e da cui dipende la sua efficacia e il suo successo.

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne 2021, un’analisi degli interventi definiti dal Legislatore negli ultimi anni con uno sguardo al futuro.

Anche le ultime novità messe in campo o, ad esempio, le misure previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dimenticano l’importanza di intervenire sulle donne inattive, che pure sono numerosissime e determinanti per fare passi avanti in termini economici e culturali.

Dal reddito di libertà ai bonus assunzioni: i “bug” degli strumenti a sostegno delle donne

Con la circolare numero 166/2021, l’INPS ha fornito le istruzioni per accedere al reddito di libertà, un supporto economico fino a un massimo di 400 euro per le donne vittime di violenza seguite dai centri antiviolenza riconosciuti dalle Regioni e dai servizi sociali.

L’Istituto descrive con queste parole la novità introdotta dall’articolo 105 bis del Decreto Rilancio:

“La misura denominata Reddito di Libertà, volta a contenere i gravi effetti economici derivanti dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, in particolare per quanto concerne le donne in condizione di maggiore vulnerabilità, nonché con l’obiettivo di favorire, attraverso l’indipendenza economica, percorsi di autonomia e di emancipazione delle donne vittime di violenza in condizione di povertà, istituita dall’articolo 3 del citato D.P.C.M., consiste in un contributo economico, stabilito nella misura massima di 400 euro mensili pro capite, concesso in un’unica soluzione per massimo dodici mesi”.

Come evidenziato su queste pagine da Tania Stefanutto in un’analisi dedicata, ci sono diverse criticità:

  • il contrasto, in primis, è agli effetti economici della pandemia, mentre la priorità dovrebbe essere la tutela delle vittime;
  • per avviare la macchina organizzativa che permetterà alle donne di beneficiare dei fondi messi a disposizione sono serviti quasi due anni;
  • la misura, incompatibile con altri sostegni come le indennità di disoccupazione o il reddito di cittadinanza, si pone obiettivi eccessivamente ambiziosi, il contributo fino a un massimo di 400 euro dovrebbe essere utile a sostenere:
    • spese per assicurare l’autonomia abitativa;
    • la riacquisizione dell’autonomia personale;
    • il percorso scolastico e formativo dei figli/delle figlie minori;
  • il reddito di libertà sarà per pochissime donne: a disposizione ci sono tre milioni di euro e, se si considera il massimo del beneficio riconosciuto, la platea di potenziali beneficiarie non arriva neanche a 1.000 donne.

Secondo gli ultimi dati Istat, solo nel secondo trimestre del 2021 hanno subito una violenza nelle sue varie forme e si sono rivolte al numero antiviolenza 1522 per chiedere aiuto 4.243 donne.

La conversione in legge del Decreto Rilancio che ha introdotto il reddito di libertà è stata approvata a luglio 2020.

Nel report ISTAT pubblicato in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre 2020, si leggono i dati relativi a quel periodo:

“Il numero delle chiamate valide sia telefoniche sia via chat nel periodo compreso tra marzo e ottobre 2020 è notevolmente cresciuto rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+71,7%), passando da 13.424 a 23.071.

La crescita delle richieste di aiuto tramite chat è triplicata passando da 829 a 3.347 messaggi.

Tra i motivi che inducono a contattare il numero verde raddoppiano le chiamate per la “richiesta di aiuto da parte delle vittime di violenza” e le “segnalazioni per casi di violenza” che insieme rappresentano il 45,8% delle chiamate valide (in totale 10.577).

Nel periodo considerato, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, esse sono cresciute del 107%. Crescono anche le chiamate per avere informazioni sui Centri Anti Violenza (+65,7%)”.

Leggendo queste cifre, non ci sono dubbi: il reddito di libertà, che pure nasce con ottimi propositi, è una misura selettiva, ristretta e poco coerente con il contesto in cui dovrebbe incidere.

Bonus assunzioni donne: favoriscono davvero l’occupazione femminile?

Un altro aspetto della misura che salta all’occhio è l’ambizione di voler sostenere l’“autonomia personale” delle donne vittime di violenza con un contributo massimo 400 euro per 12 mesi.

Non mettendo in discussione la necessità di un’azione su più fronti, prima di tutto quello psicologico, è più corretto pensare che la libertà e l’autonomia passino dal lavoro, prima che dal reddito.

Se c’è la volontà di porre le basi per un’autonomia delle vittime di violenza, e in difficoltà economica, non si può dimenticare di costruire un canale di accesso al lavoro chirurgicamente progettato e di potenziare gli strumenti già in essere.

Si tratta di mettere in condizione le donne di lavorare: di creare i presupposti perché si cerchi e si trovi lavoro, perché si possa cercare e si possa trovare.

Ed è una questione che non interessa solo coloro che sono state vittime di violenza, ma tutte.

Gli incentivi all’occupazione femminile attualmente contano su un bacino di risorse ben più ampio di quello del reddito di libertà, ma vanno nella direzione sbagliata.

Per il bonus assunzioni delle donne svantaggiate, vale a dire donne di qualsiasi età prive di impiego da almeno 24 mesi ovvero prive di impiego da almeno 6 mesi appartenenti ad aree svantaggiate, sono stati stanziati dalla Legge di Bilancio 2021 37,5 milioni di euro per quest’anno e 88,5 milioni di euro per il prossimo.

Rispetto al passato, la misura è stata potenziata: i datori di lavoro hanno diritto a uno sgravio contributivo del 100 per cento fino a un valore massimo di 6.000 euro.

Incentivi di questo tipo, seppure utili, rappresentano un vantaggio solo quando un primo obiettivo è stato già raggiunto: c’è stata una ricerca del lavoro ed è andata a buon fine.

Bastano davvero i bonus assunzioni? La questione cruciale delle donne inattive

La fragilità di strumenti come i bonus assunzioni emergono dai dati forniti dall’INPS sull’utilizzo che i datori di lavoro hanno fatto delle agevolazioni contributive, aggiornati a settembre 2021.

Nel 2019 il bonus è stato applicato a 63.663 assunzioni e 6.207 trasformazioni, nel 2020 le assunzioni sono state 53.523 e le trasformazioni 5.107.

Ma il dato interessante è un altro: nonostante per le donne ci siano misure dedicate, il numero dei contratti agevolati per le lavoratrici è nettamente inferiore a quello degli uomini e nel 2020 è diminuito drasticamente.

Nel primo semestre del 2021 si conferma una differenza per tutti gli incentivi e su 883.596 contratti agevolati solo a 32.302 si applica il bonus assunzioni donne.

A confermare una parziale e ristretta efficacia degli sgravi contributivi, utilizzati ormai da anni come motore dell’occupazione femminile, sono i dati che caratterizzano il mercato del lavoro:

  • in Italia il tasso di partecipazione delle donne al mondo del lavoro è pari al 53,1 per cento: la media europea è pari al 67,4 per cento;
  • il tasso di occupazione è caratterizzato da un ampio divario di genere, pari a 17,9 punti percentuali prima dell’arrivo dell’emergenza coronavirus;
  • il tasso di inattività delle donne a causa della responsabilità di assistenza ha raggiunto il 35,7 per cento ed è in continua crescita dal 2010: la media UE è pari al 31,8 per cento.

Ed è quest’ultimo dato che spesso viene dimenticato: è sulle donne inattive che bisogna intervenire.

A fine 2020 su un totale di 13 milioni e mezzo di persone che non hanno e non cercano un lavoro, 8 milioni e mezzo sono donne.

Il contesto parla chiaro: per favorire l’occupazione femminile non servono, o non bastano, i bonus assunzioni.

È necessario creare un ambiente culturale, sociale ed economico che favorisca il lavoro femminile.

Come? Serve “Una spinta gentile”, come suggerisce l’ex ministra del Lavoro con delega alle Pari Opportunità Elsa Fornero.

O meglio “una terapia d’urto”, per usare le parole dell’economista Andrea Ichino, autore insieme ad Alberto Alesina, della proposta di una gender tax, una tassazione più favorevole sul lavoro delle donne.

In ogni caso c’è bisogno di una strategia, fatta di azioni su più fronti, che parta da un’analisi lucida del contesto in cui agisce e dalla consapevolezza che le donne inattive sono tante, e che molte di queste non cercano un lavoro anche per i carichi di cura che si trovano a gestire.

L’opportunità più vicina per raggiungere quest’obiettivo è l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che prevede, ad esempio, un potenziamento degli asili nido o dei servizi di prossimità e di supporto all’assistenza domiciliare.

Ma sull’ampia e complessa questione delle donne inattive anche il PNRR sembra troppo debole: se le donne non hanno un lavoro perché non lo cercano, allora il problema non esiste?

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