Riqualificazione ai fini dell’imposta di registro

Giovambattista Palumbo - Imposte di registro, ipotecarie e catastali

Riqualificazione degli atti e delle operazioni ai fini dell'imposta di registro: la Corte di Cassazione torna sul tema e con l'Ordinanza n. 23180/2021 chiarisce alcuni rilevanti principi.

Riqualificazione ai fini dell'imposta di registro

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 23180 del 20/08/2021, ha chiarito rilevanti principi in tema di riqualificazione di un’operazione ai fini dell’imposta di registro, ex art. 20 del Dpr. 131/86.

Nel caso di specie, la società contribuente aveva stipulato un contratto di affitto di un compendio immobiliare, riqualificato dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 20 del Dpr. n. 131/86 come contratto di concessione del diritto di superficie per la costruzione di un impianto fotovoltaico.

Avverso l’avviso di liquidazione la società proponeva ricorso e la Commissione Tributaria Provinciale lo accoglieva.

Proposto appello dall’Agenzia delle Entrate, la Commissione Tributaria Regionale lo respingeva, interpretando l’atto negoziale come contratto di affitto del compendio, alla luce delle clausole negoziali comprensive del diritto di recesso della società, della necessità del consenso dell’ente per l’eventuale cessione del contratto, della previsione del pagamento di un canone mensile e della previsione della risoluzione in ipotesi di inadempimento contrattuale, nonché dell’obbligo di manutenzione a carico della società, tutte compatibili con la natura obbligatoria del contratto di affitto.

L’acquisizione dello ius aedificandi e l’acquisizione degli impianti alla cessazione del rapporto non risultava invece idonea, a detta dei giudici di secondo grado, ad individuare in modo univoco la natura di concessione del diritto di superficie.

Avverso la sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell’art. 20 del Dpr. 131/86, nonché degli artt. 952, 953, 1322, 1571, 1576, 1587, 1590 e 1615 c.c., per avere la CTR escluso la sussistenza del contratto di concessione del diritto di superficie, pur avendo evidenziato che il contratto concluso produceva gli effetti propri di detto negozio.

Corte di Cassazione - Ordinanza n. 23180 del 20 agosto 2021
Riqualificazione ai fini dell’imposta di registro: scarica il testo integrale dell’Ordinanza

Riqualificazione ai fini dell’imposta di registro

In particolare, affermava l’Agenzia delle Entrate, il contratto di affitto si caratterizza in quanto consente il godimento di un bene mobile o immobile dietro corrispettivo, senza consentire la trasformazione radicale del bene locato ad opera del conduttore, il quale deve utilizzare il bene secondo la destinazione economica attribuita dal proprietario del bene.

Al contrario, nella specie, il contratto consentiva la trasformazione del bene e la realizzazione di impianti fotovoltaici, che, normalmente, si realizza proprio attraverso la concessione dello jus aedificandi, caratterizzato, come in questo caso, dalla traslazione della proprietà dei manufatti realizzati sul suolo altrui, con accessione della proprietà della costruzione al terreno ex art. 953 c.c.; mentre nel contratto di affitto sussiste l’obbligo di rimuovere le addizioni eseguite dal conduttore, salva la possibilità per il proprietario locatore di trattenerli accordando al conduttore un indennizzo.

Secondo la Suprema Corte il ricorso era infondato.

I giudici di legittimità evidenziano che la Cassazione ha già in argomento affermato che, in tema di imposte di registro, ipotecaria e catastale, in applicazione della regola interpretativa di cui all’art. 20 del Dpr. n. 131 del 1986, che consente all’Ufficio di dare una qualificazione oggettiva dell’atto o degli atti soggetti a registrazione, secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessivamente considerata, l’Amministrazione finanziaria, pur non essendo tenuta a conformarsi alla qualificazione attribuita dalle parti al contratto, non può travalicare lo schema negoziale tipico in cui l’atto risulta inquadrabile, salva la prova, da parte sua, sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione ed alterazione degli schemi negoziali classici (cfr., Cass. n. 722 del 15/01/2019).

È stato altresì statuito, rileva la Corte, che il criterio fissato dall’art. 20 cit. impone di privilegiare l’intrinseca natura e gli effetti giuridici, rispetto al titolo e alla forma apparente degli stessi, con la conseguenza che i concetti privatistici relativi all’autonomia negoziale regrediscono, di fronte alle esigenze antielusive poste dalla norma, a semplici elementi della fattispecie tributaria, per ricostruire la quale dovrà, dunque, darsi preminenza alla causa dei negozi giuridici (cfr. Cass. n. 23584/12, n. 6835/13, n. 17965/13, n. 3481/14).

Va, però, nel contempo evidenziato che, quando si ponga la questione relativa alla interpretazione dell’atto soggetto a tassazione, per evidenziarne l’intrinseca natura, il giudice tributario è tenuto a considerare le deduzioni difensive sul punto, ancor più se suffragate da specifica documentazione, motivandone la eventuale non decisività (cfr., Cass. n. 2048/2017).

E peraltro, la giurisprudenza di legittimità è da tempo orientata nel senso di escludere che l’art. 20 sia predisposto al recupero di imposte “eluse”, perché l’istituto dell’abuso del diritto - disciplinato oggi dall’art. 10 bis L. n. 212 del 2000 – presuppone una mancanza di “causa economica”, che non è viceversa prevista per l’applicazione di tale disposizione, la quale, semplicemente, impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto, o il collegamento di più atti, in ragione della loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio (cfr., Cass. n. 7317/2018).

Nel caso in esame, in conclusione, il giudice di merito, cui spetta la qualificazione dei negozi giuridici, aveva sul punto ben analizzato le motivazioni dell’Ufficio, escludendone la rilevanza e congruamente motivandone la irrilevanza.

Riqualificazione ai fini dell’imposta di registro: due fasi per la qualificazione del contratto

La qualificazione del contratto consta, del resto, aggiunge la Cassazione, di due fasi, consistenti, la prima, nella individuazione ed interpretazione della comune volontà dei contraenti, e la seconda, nell’inquadramento della fattispecie negoziale nello schema legale paradigmatico corrispondente agli elementi individuati (tra le tante: Cass. 16 giugno 1997, n. 5387; Cass. 25 gennaio 2001, n. 1054; Cass. 3 novembre 2004, n. 21064, Cass. 12 gennaio 2006, n. 420; n. 29111/2017; n. 9996/2019).

Mentre le operazioni interpretative attinenti alla prima fase costituiscono espressione dell’attività tipica del giudizio di merito, il cui risultato, concretandosi in un accertamento di fatto, non è in termini generali sindacabile in sede di legittimità (salvo che per vizi di motivazione in relazione agli artt. 1362 ss c.c.), la seconda fase, concernente l’inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente, si risolve invece nell’applicazione di norme giuridiche e può dunque formare oggetto di verifica in sede di legittimità (cfr., Cass. 12 gennaio 2006, n. 420).

Sennonchè, il ricorrente deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante la specifica indicazione delle norme asseritamene violate, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali (cfr., Cass. 15/11/2017, n. 27136), laddove quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è comunque consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (cfr., Cass. 28/11/2017, n. 28319).

Nel caso di specie, la formulazione del motivo non era in linea con tali requisiti di ammissibilità e, contrariamente a quanto dedotto, non erano state violate le norme sulla interpretazione dei contratti.

La CTR infatti, sulla base delle clausole valorizzate dall’Ufficio per affermare l’esistenza della concessione di un diritto superficiario, aveva escluso una qualsiasi volontà di costituire un diritto reale, risultando invece chiaro, da una serie di elementi evincibili dal contenuto della convenzione (termine, proroghe ecc.), che era stato stipulato un accordo a contenuto negoziale, tanto più che, essendo il terreno asservito all’utilità dell’interesse pubblico della rete Elettrica nazionale, non sarebbe stato neppure possibile concedere nella specie un diritto di superficie.

A favore dell’inquadramento giuridico dato dalla CTR militava poi anche l’obbligo del corrispettivo costituito da un canone periodico.

Non erano state pertanto applicate in modo errato le norme di interpretazione contrattuale, laddove, sulla base dei principi già espressi anche dalla Corte di Cassazione, la differenza, dal punto di vista sostanziale, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è costituita, dall’ampiezza ed illimitatezza del primo, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi del secondo, che, in ragione del suo carattere obbligatorio, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi vari aspetti (cfr., Cass. n. 5034/2008; n. 7811/2006).

Riqualificazione ai fini dell’imposta di registro: interpretazioni degli atti solo in base al loro contenuto

Al fine dunque di stabilire se una concessione ad aedificandum sia costitutiva di diritti di natura reale o meramente obbligatoria, è decisiva l’interpretazione complessiva - attribuita al giudice del merito, trattandosi di apprezzamenti di fatto - del «titolo», e cioè del contratto, e, in particolare, della disciplina relativa alla sorte delle opere costruite dal concessionario al momento della cessazione del rapporto concessorio.

A prescindere dallo specifico caso processuale, in termini più generali, in riferimento all’applicazione del citato art. 20, giova anche evidenziare quanto segue.

Un’interpretazione della norma in chiave antielusiva provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’abuso del diritto, e consentirebbe all’Amministrazione finanziaria di non applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale e di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali, precludendo di fatto al contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (cfr., Cass. n. 14342 del 25/05/21).

Anche se la questione non riguardava il caso sopra esaminato, si ricorda del resto poi che l’art. 20 del Dpr. 26 aprile 1986 n. 131 è stato modificato dall’art. 1, comma 87, della Legge 27 dicembre 2017 n. 205 e dall’art. 1, comma 1084, della Legge 30 dicembre 2018 n. 145, nella parte in cui prevede, oggi, che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extratestuali.

Il legislatore, con tale modifica, ha dunque inteso riaffermare la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro (Corte Costituzionale n. 158 del 21 luglio 2020).

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