IRAP ed IVA spettano solo se i servizi di appalto sono veri

Gianfranco Antico - Imposte

Contratto di appalto senza data certa e senza qualifiche del personale per mascherare i costi di lavoro dipendente. La conseguenza: indeducibilità IRAP e IVA indebitamente detratta. Come si è espressa la Corte di Cassazione

IRAP ed IVA spettano solo se i servizi di appalto sono veri

La mancanza di data certa del contratto di appalto, la mancata indicazione del numero, della qualifica e delle funzioni del personale utilizzato, nonché le dichiarazioni rese dagli stessi lavoratori, lascia presumere che le spese sostenute nei confronti di una cooperativa non riguardavano servizi dalla medesima svolti, ma celavano costi di lavoro dipendente, trattandosi di personale che lavorava di fatto alle dipendenze della contribuente, con conseguente indeducibilità dei relativi costi ai fini IRAP e la ripresa dell’IVA indebitamente detratta.

È questo il principio dettato dall’ordinanza della Corte di Cassazione, sez.5, n.15530 del 1° giugno 2023, che si è attestata sulla posizione del giudice di appello.

IRAP, IVA e veridicità dei servizi di appalto

Il rilievo dell’Ufficio – che assoggettava ad IRAP i costi di personale mascherati da servizi, negando altresì la detraibilità dell’IVA – veniva contestata dal contribuente, per avere la CTR erroneamente applicato la normativa che disciplina gli elementi identificativi del rapporto di lavoro subordinato, con riferimento al rapporto di lavoro dei dipendenti di una cooperativa, che lavoravano presso i locali della contribuente, atteso che gli strumenti produttivi e le materie prime erano forniti dalla cooperativa, così come alla cooperativa spettava il potere di organizzare il lavoro di detto personale.

Il pensiero degli Ermellini sulla specificità e sulla rivalutazione dei fatti storici

Per gli Ermellini, il motivo è inammissibile sotto un duplice profilo: da un lato, difetta di specificità, non avendo la contribuente riprodotto nel ricorso, ma neppure localizzato gli elementi dai quali si possa evincere l’assenza di indici qualificanti il rapporto contestato in termini di fittizia interposizione di manodopera; dall’altro lato, la censura mira, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U. n. 34476 del 2019), in particolare con riferimento alla valutazione delle prove.

Brevi note

La stringata ma efficace pronuncia in esame si inserisce a pieno titolo nel dibattito ormai da anni aperto relativo all’intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, dove la distinzione tra contratto di appalto e quello di somministrazione di manodopera è determinata non solo dalla proprietà dei fattori di produzione, ma anche dalla organizzazione dei mezzi e dalla assunzione effettiva del rischio d’impresa, in assenza dei quali si configura una mera fornitura di prestazione lavorativa che, se effettuata da soggetti non autorizzati, è sottoposta alla sanzione di cui all’art. 18 del D. Lgs. n. 276 del 10 settembre 2003, che concorre con il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (Cass. sez. pen., con la sentenza n. 8809 del 4 marzo 2021).

In genere, a sostegno della natura fittizia o simulata dei contratti di appalto vengono richiamate una serie di elementi indiziari:

  • indicazione da parte degli stessi committenti del personale da assumere da parte della verificata, spesso prima già alle dipendenze della committente;
  • inserimento stabile del personale nel ciclo produttivo del committente;
  • proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l’espletamento dell’attività ovvero prese a noleggio dallo stesso committente;
  • organizzazione da parte del committente dell’attività del personale;
  • mancanza di assunzione del rischio di impresa da parte della società verificata.

Proprio la sentenza sez. pen., con la sentenza numero 8809 del 4 marzo 2021, pur resa nell’ambito di un contesto cautelare, presenta tutta una serie di questioni di rilevante interesse che ruotano tutte attorno all’interposizione di manodopera e al divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, nonché agli aspetti sanzionatori nelle ipotesi di somministrazione irregolare e appalto non genuino.

Come è noto, l’art. 10, del D. Lgs. n. 158/2015, ha inserito l’art.12-bis nell’ambito del D.Lgs.n.74/2000, creando la “confisca fiscale” (atteso, fra l’altro, che l’art.14, del D.Lgs.n.158/2015 ha abrogato il comma 143, dell’art.1, della legge 24 dicembre 2007, n. 244).

Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del C.p.p. per uno dei delitti previsti dal D. Lgs. n. 74/2000 (facendovi così rientrare anche il reato di occultamento o distruzione delle scritture contabili, prima escluso), è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’Erario anche in presenza di sequestro.

Nel caso di mancato versamento è sempre disposta la confisca. La confisca in forma diretta è obbligatoriamente disposta con riguardo alle cose che rappresentano il prezzo o il profitto del reato, sempre che le medesime “non appartengano a persona estranea” ad esso; può avere ad oggetto soltanto i beni per i quali sussista un nesso di contiguità con il delitto per cui si procede, cioè una relazione immediata, attuale e strumentale tra il bene da ablare e il fatto delittuoso.

Il prezzo del reato è rappresentato dal compenso o dal corrispettivo ricevuto o promesso per indurre, determinare o istigare qualcuno a commettere un reato. Ove non sia possibile eseguire il sequestro finalizzato alla confisca in forma diretta, è possibile per i delitti tributari procedere per equivalente, apprendendo beni, sino a concorrenza del profitto e del prezzo del reato, che non abbiano alcun collegamento con l’attività delittuosa e di cui il reo abbia la disponibilità, anche in funzione di situazioni giuridiche diverse e subordinate rispetto al diritto di proprietà, purché idonee a garantire il pieno godimento del bene.

E pertanto, è il pubblico ministero legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo per equivalente, in luogo di quello in forma diretta, all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che abbia tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo necessario il compimento di ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto diretto del reato spettando, anzi, al soggetto destinatario del provvedimento cautelare l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per disporre il provvedimento ablativo in forma diretta (cfr. sul punto circolare della G.d.F. n. 1/2018).

La somministrazione di manodopera

La dissociazione tra datore di lavoro ed effettivo utilizzatore della prestazione è stata storicamente contenuta dal legislatore e consentita solamente per ipotesi tipizzate al fine di trovare un contemperamento tra esigenze di flessibilità dell’organizzazione imprenditoriale e garanzie di tutela dei lavoratori e come rilevato dalla Corte di Cassazione, sentenza n. 29889 del 18 novembre 2019:

“il criterio discretivo per individuare una legittima dissociazione tra formale datore di lavoro e sostanziale utilizzatore delle prestazioni lavorative è, dunque, la riconduzione della fattispecie concreta alle ipotesi normativamente tipizzate. È onere del datore di lavoro, sia quello formale che sostanziale, dimostrare la sussistenza di una genuina intermediazione di manodopera (che consista in un contratto di appalto di servizio ovvero in un contratto di somministrazione).”

Nel caso di specie, i servizi di facchinaggio, conservazione e gestione dei documenti svolti all’interno della banca dovevano ricondursi ad una delle ipotesi legislativamente consentite di dissociazione tra datore di lavoro formale e utilizzatore sostanziale, in particolare al contratto di appalto. In adesione a tali convergenti deduzioni, la Corte distrettuale ha proceduto all’accertamento di tale circostanza con specifico riferimento a ciascun lavoratore (ossia ai diversi periodi di lavoro prestati e alle distinte società appaltatrici che avevano proceduto all’assunzione), al fine di verificare se effettivamente l’attività lavorativa svolta all’interno della banca rappresentasse l’esecuzione dello schema tipico di un contratto di appalto.

La Corte distrettuale ha ritenuto illegittima la scissione tra datore di lavoro formale e datore di lavoro effettivo non avendo trovato riscontri probatori dello schermo legale tipico del contratto di appalto. La riscontrata assenza di accordi tra le società ricorrenti, effettive utilizzatrici delle prestazioni dei lavoratori, e le società intermediarie che hanno proceduto alle assunzioni, ai fini dell’affidamento della gestione di particolari settori di attività interni al ciclo produttivo si risolve nella conferma del generale principio di individuazione del datore di lavoro nel soggetto che utilizza la prestazione lavorativa in base alla norma inderogabile dettata dall’art. 2094 codice civile che si riferisce alla collaborazione “nell’impresa” alle dipendenze dell’imprenditore, tipicamente individuato in colui che organizza i fattori della produzione.

Una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore alla organizzazione e direzione dei prestatori di lavoro nell’esecuzione dell’appalto:

“è del tutto ultronea qualsiasi questione inerente il rischio economico e l’autonoma organizzazione del medesimo, né rileva che l’impresa appaltatrice sia effettivamente operante sul mercato, atteso che, se la prestazione risulta diretta ed organizzata dal committente, per ciò solo si deve escludere l’organizzazione del servizio ad opera dell’appaltante”

in questi termini Cass. numero 11720 del 2009; Cass. numero 17444 del 2009; Cass. numero 9624 del 2008.

Brevi note sull’applicazione IVA ed IRAP nei servizi di appalto

In tema di appalto di servizi quando il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente il giudice del merito può accertare la nullità del contratto di appalto, con conseguente indetraibilità dell’IVA e indeducibilità dell’IRAP.

In tal senso è ormai consolidata la giurisprudenza di legittimità (fra le altre, Cass. nn. 12808/2020, 12551/2020 e 31720/2018).

L’eterodirezione si ha quando l’appaltante-interponente, non solo organizza, ma anche “dirige” i dipendenti dell’appaltatore, utilizzandoli in prima persona. Alla interposta, quindi, in presenza di eterodirezione, restano solo compiti di gestione amministrativa del rapporto, senza una reale organizzazione della prestazione lavorativa.

Anche la Sezione lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 31127/2021, ha affermato che

“l’appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza che l’appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la “confezione del prodotto”, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell’appaltatore (Cass. 10 giugno 2019, n. 15557) ed è ravvisabile, di contro, una interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente (Cass. 25 giugno 2020, n. 12551).”

La stessa Corte di cassazione, con la sentenza numero 34727/19, ha affermato che:

“In caso di “appalto non genuino”, quindi, ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3 bis, si consente ai lavoratori di chiedere, in via giudiziale, ai sensi dell’art. 414 c.p.c., la “costituzione” di un rapporto di lavoro alle dipendenze del datore di lavoro “effettivo”, ossia dell’interponente. Non vi è più, quindi, l’assunzione ex lege del lavoratore presso il datore di lavoro effettivo ai sensi della L. n. 1369 del 1960, art. 1, comma 5. La previsione di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3 bis, comporta, comunque, la “nullità” del contratto stipulato tra committente ed appaltatore, con conseguente nullità anche del contratto tra lavoratore e somministratore, incidendo, in tal modo, anche ai fini dell’IVA e dell’IRAP (Cass., 28 luglio 2017, n. 18808; Cass., 17 gennaio 2018, n. 938; Cass., 27 luglio 2018, n. 19966; Cass., 12 novembre 2018, n. 28953; di recente Cass., 7 dicembre 2018, n. 31720). Diviene, quindi, irrilevante la richiesta del lavoratore, ai sensi dell’art. 414 c.p.c., di “costituire” il rapporto di lavoro alle dipendenze del committente-interponente, ossia del datore di lavoro “effettivo”, quello dunque che ha beneficiato della prestazione. (…) Tale “conversione” “postula la nullità dei contratti” che ne sono oggetto, ed in particolare quello tra interponente ed interposto, che può essere fatta valere da chi ne abbia interesse, quindi, anche dal fisco, nonché rilevata d’ufficio ai sensi dell’art. 1421 c.c. (Cass., 7 dicembre 2018, n. 31720), con nullità “derivata” anche per il contratto tra lavoratore e somministratore (Cass., 12 novembre 2018, n. 28953; Cass., 18808/2017) (…) Non è configurabile, allora, stante la nullità dei contratti, un rapporto di appalto tra la committente e l’interposta, con impossibilità di detrarre l’IVA da parte della società contribuente. Il diritto di detrazione scaturisce, invece, dalla effettiva realizzazione della prestazione di servizi; sicché mancando tale effettiva prestazione, non sorge il diritto alla detrazione (Corte giust. 27 giugno 2018, cause C-459-460/17, SGI e Valeriane snc, punto 35).”

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