La condanna alle spese del giudizio nel processo tributario

La Corte di Cassazione si è espressa, con la sentenza numero 3556 del 2024, in tema di spese del giudizio nel processo tributario

La condanna alle spese del giudizio nel processo tributario

Nel processo tributario le spese del giudizio - che comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali, oltre il contributo previdenziale e l’IVA, se dovuti, seguono la soccombenza.

Il principio cardine, dunque, che regola la materia è il criterio della soccombenza, di cui all’art. 15 del Dlgs n. 546/92, per il processo tributario, e alla norma generale di cui all’art. 91 cpc, laddove viene previsto che il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme agli onorari (cfr., Cass., n. 189/2017).

La condanna alle spese del giudizio: il caso di specie

Le Corti di Giustizia tributaria di primo e secondo grado, per effetto del comma 2 dell’art. 15, possono compensare in tutto o in parte le spese solo in caso di soccombenza reciproca o sussistenza di gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate dal giudice, ovvero quando la parte è risultata vittoriosa sulla base di documenti decisivi che la stessa ha prodotto solo nel corso del giudizio (il legislatore, con tale ultimo inserimento, ha voluto incentivare le parti ad anticipare, già alla fase precontenziosa, la produzione dei documenti utili alla difesa della propria posizione processuale).

Si sottolinea che le gravi ed eccezionali ragioni che possono giustificare la compensazione, totale o parziale, delle spese, non solo, come detto, devono essere indicate esplicitamente nella motivazione, ma non possono essere illogiche o erronee, e devono trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa (cfr., Cass., n. 17988 del 04/07/2019).

Se la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, la Corte di Giustizia tributaria la condanna, su istanza dell’altra parte, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni liquidati, anche d’ufficio nella sentenza.

Il tutto per effetto del richiamo, nell’art. 15, comma 2-bis, dell’art. 96, commi 1 e 3, c.p.c., in materia di responsabilità aggravata per la cd. lite temeraria.

Infine, il comma 2-octies dell’art. 15, al fine di incentivare la deflazione del contenzioso, stabilisce che la parte che abbia rifiutato, senza giustificato motivo, la proposta conciliativa formulata dall’altra parte è tenuta a sopportare le spese processuali, maggiorate del 50 per cento, quando il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della stessa proposta conciliativa.

Intervenuta la conciliazione, le spese di giudizio si intendono invece compensate, salvo che le parti abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.

Come dettato dalla Suprema Corte, nel vigente sistema, il giudice, nel definire un procedimento di carattere contenzioso, ha il potere-dovere di statuire sulle spese, anche senza espressa istanza dell’interessato, salvo che lo stesso abbia manifestato la volontà di rinunciarvi (Cass., 12 giugno 2018, n. 649173; Cass., 27 agosto 2003, n. 12542).

Nella liquidazione delle spese si tiene inoltre conto anche del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza degli atti di parte - comma 2-nonies, art. 15 del Dlgs 546/92.

Quest’ultimo comma è da leggersi in combinato disposto con il nuovo art. 17 ter, comma 1, del Dlgs 546/92: “gli atti del processo, i verbali e i provvedimenti giurisdizionali sono redatti in modo chiaro e sintetico”, regola voluta dalla riforma Cartabia per il processo civile (articolo 121 c.p.c.).

La compensazione delle spese di giudizio è, in sostanza, una vera e propria deroga rispetto al principio generale che vuole, anche nel processo tributario, l’applicazione del principio di soccombenza processuale per le spese giudiziali.

E può sussistere solo in tassative fattispecie, come precisate dal riformato articolo 15 del d.lgs. 546/1992.

Casi di soccombenza reciproca sono quindi, ad esempio, il rigetto delle richieste di ambedue le parti, la rinuncia ad alcune domande, l’accoglimento di alcune domande o di alcuni capi della domanda.

Qualche sentenza (seppur relativa alla previgente disciplina) può essere utile per capire il funzionamento e la ratio della disciplina in tema di spese di giudizio.

La compensazione delle spese di giudizio trova ad esempio spazio qualora l’annullamento dell’atto in sede di autotutela non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato, sussistente sin dal momento della sua emanazione, ma derivi, invece, dall’obiettiva complessità della materia chiarita da apposita norma interpretativa, costituendo in tal caso detto annullamento un comportamento processuale conforme al principio di lealtà, ai sensi dell’art. 88 cod. proc. civ..

La condanna alle spese del giudizio: il parere della Cassazione

Così si è espressa la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 3556 del 07/02/2024.

In caso di cessazione della materia del contendere, come noto, si provvede, di solito, mediante il criterio della soccombenza virtuale.

Ma comunque, dice la Cassazione, anche nell’ipotesi di estinzione del giudizio, ai sensi dell’art. 46, primo comma del Dlgs n. 546 del 1992, per cessazione della materia del contendere, determinata dall’annullamento in autotutela dell’atto impugnato, può essere disposta la compensazione delle spese di lite, ai sensi dell’art. 15, primo comma, del medesimo decreto, laddove questa venga decisa all’esito di una valutazione complessiva della lite da parte del giudice tributario (cfr., Cass., n. 19947 del 2010; Cass., n. 9174 del 2011; Cass., n. 3950 del 2017; Cass., n. 21380 del 2006).

Tra le gravi ed eccezionali ragioni che possono legittimare la compensazione delle spese possono rientrare la novità, peculiarità od oggettiva incertezza delle questioni di fatto o di diritto affrontate nel giudizio, o nel frattempo intervenute modifiche normative, pronunce della Corte Costituzionale e della Corte Comunitaria.

Ma certamente non ragioni di “equità”, o di tipologia della controversia, o comunque formule di stile che non ottemperano al dettato normativo.

Le “gravi ed eccezionali ragioni” devono inoltre riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa, non potendosi ad esempio ritenere sufficiente il mero riferimento alla natura processuale della pronuncia, che, in quanto tale, può trovare applicazione in qualunque lite che venga risolta sul piano delle regole del procedimento (in senso conforme Cassazione n. 28658 del 07/11/2019).

In conclusione, se è vero che la compensazione delle spese di giudizio costituisce una facoltà discrezionale riservata al giudice, tuttavia, il sindacato di legittimità si può sempre estendere alla verifica dell’idoneità in astratto dei motivi posti a giustificazione della stessa compensazione (cfr., Cass., n. 26689 del 21/10/2019).

La compensazione immotivata delle spese di giudizio, rendendo inoperante il principio di responsabilità, si tradurrebbe infatti in un ingiustificato privilegio per la parte soccombente, laddove la condanna alle spese processuali ha il suo fondamento nell’esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale per la parte che ha dovuto svolgere un’attività processuale per ottenere il riconoscimento di un suo diritto.

Il Dlgs n. 220/2023 ha esteso anche al giudizio dinanzi alle Corti di giustizia tributarie la regola della sinteticità e chiarezza degli atti, prevedendo, nel comma 1 del neointrodotto articolo 17-ter del Dlgs n. 546/1992, che “Gli atti del processo, i verbali e i provvedimenti giurisdizionali sono redatti in modo chiaro e sintetico” e, come visto, nell’articolo 15 del medesimo Dlgs n. 546/1992 del 1992, al comma 2-nonies, che “Nella liquidazione delle spese si tiene altresì conto del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza degli atti di parte”.

La violazione del principio di sinteticità degli atti processuali è peraltro rilevabile anche d’ufficio (cfr., CdS, n. 8487/2023).

A partire dal 1° settembre 2023, dunque, per effetto del Dm Giustizia n. 110 del 7 agosto 2023, per i nuovi procedimenti (escluse le controversie al di sopra dei 500.000 euro di valore), tutti gli avvocati (e gli Uffici) dovranno essere “sintetici”, rispettando (salvo esplicite eccezioni) i limiti già indicati.

Il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto “non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo” (art. 46 disp. Att. Cpc, come modificato dalla riforma Cartabia).

Ma, a dire il vero, la sua violazione potrebbe perfino comportare la inammissibilità del ricorso, laddove, la Corte di Cassazione aveva già dichiarato, anche prima delle dette novità normative, l’inammissibilità dei ricorsi stilati mediante assemblaggio di atti e documenti dei gradi di merito, in quanto inidonei ad assolvere al requisito dell’esposizione sommaria del fatto di cui all’art. 366, comma 1°, n. 3, c.p.c (cfr., Cass., 16 marzo 2023, n. 7600; Cass., 6 settembre 2022, n. 26234; Cass., 18 novembre 2021, n. 35247; Cass., 30 agosto 2019, n. 21868, e da ultimo Cass., n. 25254 del 24.08.2023).

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