Come funziona la distribuzione di utili extracontabili ai soci? La sentenza della Cassazione

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 13938/2025, è tornata sul sempre controverso tema della distribuzione ai soci di Srl a ristretta base azionaria di utili extracontabili.
Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate aveva notificato al contribuente un avviso di accertamento in relazione al reddito di partecipazione non dichiarato ritenuto conseguito nell’anno 2009, quale socio al 6 per cento di una Srl avente ristretta base partecipativa.
Il contribuente, premesso di avere dismesso la sua partecipazione societaria nel 2010, e di non aver ricevuto la notificazione dell’avviso di accertamento presupposto emesso nei confronti della società, impugnava l’atto impositivo innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, proponendo, in particolare, censure avverso l’avviso di accertamento societario e la pretesa redistribuzione del maggior reddito ritenuto accertato.
La distribuzione di utili extracontabili ai soci
La CTP riteneva fondato il ricorso del contribuente ed annullava l’atto impositivo.
L’Agenzia delle Entrate proponeva appello, contestando, in primo luogo, che non era consentito al contribuente, socio di società di capitali avente ristretta base partecipativa, proporre critiche avverso l’accertamento emesso nei confronti della società e divenuto definitivo in conseguenza della mancata impugnazione. La CTR rigettava però l’impugnazione della società.
L’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, contestando la violazione dell’art. 145 del cod. proc. civ., e dell’art. 46 cod. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto che l’avviso di accertamento rivolto alla società dovesse essere notificato al socio, non avente qualifica di legale rappresentante della Srl, censurando la violazione dell’art. 42 del DPR n. 600 del 1973 e dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000 (c.d. Statuto del contribuente), per avere il giudice dell’appello erroneamente ritenuto che l’avviso di accertamento societario fosse rimasto sconosciuto al contribuente, mentre lo stesso era stato allegato all’avviso di accertamento a lui notificato in relazione al reddito di partecipazione conseguito, rilevando la violazione dell’art. 36 del Dlgs n. 546 del 1992 per avere la CTR deciso sul fondamento dell’esame dell’accertamento compiuto nei confronti della società, che era invece divenuto definitivo ed esulava dall’oggetto del giudizio e per aver ritenuto che fosse possibile riesaminare la fondatezza dell’avviso di accertamento emesso nei confronti di società di capitali avente ristretta base partecipativa, divenuto definitivo, in sede di accertamento del reddito di partecipazione conseguito dal socio.
La Suprema Corte rileva che la Commissione Tributaria Regionale scriveva che “deve ritenersi consentito al singolo socio di società di capitali a ristretta base azionaria di contestare l’accertamento relativo alla società ... allorquando, come nel caso del resistente A.A., lo stesso socio non abbia avuto la possibilità di far valere le proprie ragioni direttamente avverso l’avviso di accertamento relativo alla società in quanto a lui sconosciuto perché non notificato nel merito” e rilevava come il socio avesse fornito spiegazioni, corredate da adeguata documentazione a riscontro, tese ad attestare la regolarità dei dati contabili e fiscali ed idonee a supportare l’effettività dei costi sostenuti come riportati in bilancio, mancando pertanto, a suo avviso, elementi gravi, precisi e concordanti tali da legittimare l’operatività delle presunzioni semplici di distribuzione degli utili extracontabili tra i soci, su cui l’ufficio aveva fondato l’accertamento analitico-induttivo ex art. 39 c.1 lett. d) DPR n. 600/73.
Sul punto l’Amministrazione finanziaria replicava che, in materia di accertamento del reddito di partecipazione conseguito dal socio di società avente ristretta base partecipativa, a seguito della definitività dell’accertamento del maggior reddito conseguito dalla società, il socio non può proporre contestazioni avverso l’accertamento societario, potendo solo dimostrare che i maggiori redditi siano stati reinvestiti o accantonati dalla società (o che qualcuno se ne sia appropriato), e in conseguenza non sono stati distribuiti tra i soci stessi.
Secondo la Suprema Corte la tesi dell’Amministrazione finanziaria risultava infondata e il ricorso era dunque da respingere.
Il parere della Cassazione
Evidenziano i giudici di legittimità che, nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva ritenuto dimostrato che il preteso maggiore reddito societario fosse stato reinvestito, e, pertanto, non fosse stato redistribuito ai soci.
Avverso questa motivazione della decisione l’Agenzia delle Entrate non proponeva critiche specifiche, e si limitava ad affermare che non potevano proporsi contestazioni avverso l’accertamento societario ormai divenuto definitivo, trascurando, però, di rilevare che è sempre consentito al socio provare che il maggior reddito conseguito dalla società non sia stato distribuito ai soci; prova che appunto, secondo il giudice di merito, era stata fornita nella specie.
La Cassazione rileva inoltre che, nell’ipotesi in cui l’accertamento nei confronti della società sia divenuto definitivo non per la mera mancanza di impugnazione, bensì a seguito di pronuncia giurisdizionale definitiva:
“in tema di accertamento dei redditi di partecipazione, l’indipendenza dei procedimenti relativi alla società di capitali ed al singolo socio comporta che quest’ultimo, ove abbia impugnato l’accertamento a lui notificato senza aver preso parte al processo instaurato dalla società, conserva la facoltà di contestare non solo la presunzione di distribuzione di maggiori utili ma anche la validità dell’accertamento, a carico della società, in ordine a ricavi non contabilizzati … (cfr., Cass. n. 19606/2006; Cass. n. 21356/2009; Cass. n. 17966/2013).”
La decisione presa in relazione all’accertamento del maggiore reddito della società di capitali non può infatti svolgere alcuna efficacia di giudicato nei confronti del socio, nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo concernente il maggior reddito da partecipazione, non potendo il giudice di merito limitarsi ad un mero rinvio alla motivazione della sentenza pronunciata nei confronti, della società (cfr., Cass. n. 19013/2016).
In sostanza, conclude la Corte, sebbene:
“la determinazione del reddito di partecipazione dei soci sia (ai fini dell’IRPEF e dell’IRPEG) una diretta conseguenza giuridica dell’accertamento del reddito in capo alla società, ove il socio abbia separatamente impugnato l’accertamento notificatogli, con il quale gli sia stata attribuita una quota del reddito della società, la decisione resa nel processo instaurato dalla società, al quale il socio non abbia partecipato o non sia stato posto in grado di parteciparvi, non può svolgere alcuna efficacia di giudicato nei confronti del processo riguardante il socio, ostandovi i principi in tema di limiti soggettivi del giudicato, coniugati con quelli costituzionali in materia di tutela dei diritti, stabiliti nell’art. 24 Cost.”
La previsione di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), del DPR n. 600 del 1973, legittima quindi la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali a ristretta base azionaria, con la conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale non può limitarsi a denunciare la propria estraneità alla gestione e conduzione societaria, ma deve dimostrare, eventualmente anche ricorrendo alla prova presuntiva, che i maggiori ricavi non siano stati effettivamente realizzati dalla società, che quest’ultima non li abbia distribuiti, ma accantonati o reinvestiti, ovvero che degli stessi se ne sia appropriato altro soggetto (cfr., Cass. n. 21158/2024).
Spetta al contribuente dimostrare che gli utili extracontabili non sono stati distribuiti fra i soci
Tanto premesso, a prescindere dallo specifico caso processuale, in termini più generali, giova comunque anche ricordare che la giurisprudenza sul tema è molto rigorosa, spesso a sfavore del contribuente, avendo per esempio recentemente la stessa Cassazione anche affermato che il fatto che nel giudizio penale non siano emersi elementi sufficienti per poter affermare, secondo la regola probatoria dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” ivi vigente, che il socio avesse effettivamente incassato gli utili extracontabili, non rileva ai fini del superamento della presunzione semplice di distribuzione che opera comunque a carico dei soci di società a ristretta base partecipativa (cfr. Cass. n. 12288/2025).
Quel che è certo è che spetta al contribuente dimostrare che gli utili extracontabili accertati in capo alla società da lui partecipata non sono stati distribuiti fra i soci, bensì accantonati o reinvestiti.
L’accertamento di un maggior reddito d’impresa in capo a una società di capitali a ristretta base proprietaria genera infatti la presunzione che tale reddito sia stato attribuito in forma di utili extracontabili ai soci, laddove, al fine di potersi giovare della detta presunzione, l’Ufficio è tenuto a provare unicamente la ristretta base sociale, poiché il fatto noto da cui muove il ragionamento inferenziale non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati in capo alla società, ma, appunto, dalla ristrettezza della base partecipativa, dal vincolo di solidarietà ravvisabile fra i soci, dalla maggiore conoscibilità, da parte di questi ultimi, dell’andamento degli affari societari e dell’esistenza di utili occulti, oltre che dal reciproco controllo normalmente esercitato dai componenti di simili ristrette compagini (cfr. Cass. n. 19272/2024).
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