Autoriciclaggio e fittizia cessione di azienda

Autoriciclaggio e fittizia cessione di azienda al centro della sentenza della Corte di Cassazione n. 26902/2022: analisi dei fatti e della normativa di riferimento.

Autoriciclaggio e fittizia cessione di azienda

La Corte di Cassazione, Sez. Penale, con la sentenza n. 26902 del 12 luglio 2022, si è espressa in tema di autoriciclaggio e fittizia cessione di aziende.

Nel caso di specie, il Tribunale del riesame aveva confermato il decreto di sequestro probatorio di nove carnet di assegni, rinvenuti nel corso di una perquisizione.

Il Pubblico ministero aveva ipotizzato, nei confronti dell’imputato, i reati di cui agli artt. 512 bis e 648 ter cod. pen.

In particolare, all’indagato era stato contestato di avere attribuito fittiziamente ai figli la titolarità di aziende agricole, di fatto da lui gestite, al fine di agevolare la commissione del delitto di cui all’art. 648 ter cod. pen.

Era poi stato contestato di avere impiegato, nella gestione delle aziende agricole intestate ai figli, denaro di provenienza delittuosa, ricavato dalla fittizia cessione di un ramo d’azienda.

Il Tribunale del riesame aveva ritenuto sussistente il fumus dei reati di cui agli artt. 512 bis e 648 ter1 cod. pen (riqualificando dunque in autoriciclaggio il reato di riciclaggio).

Avverso l’ordinanza del Tribunale l’indagato aveva poi proposto ricorso per cassazione, deducendo l’inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 512 bis cod. pen.

Autoriciclaggio e fittizia cessione di azienda: i fatti

Al ricorrente, come detto, era stato infatti contestato di avere attribuito fittiziamente ai figli la titolarità di aziende agricole, di fatto da lui gestite, al fine di agevolare la commissione del delitto di cui all’art. 648 ter cod. pen.

Quest’ultimo delitto, per la cui agevolazione sarebbe dunque avvenuta l’attribuzione fittizia delle aziende agricole, si sarebbe sostanziato nell’impiego, nella gestione delle stesse aziende, di denaro di provenienza delittuosa, ricavato dalla fittizia cessione di un ramo d’azienda.

Il Tribunale del riesame, come detto, aveva ritenuto sussistenti i gravi indizi per il reato di autoriciclaggio, riqualificando in tali termini il reato di riciclaggio, ipotizzato dal Pubblico ministero, ma, così facendo, non si era reso conto di aver ampliato lo spettro dei reati per la cui agevolazione è possibile che la fittizia intestazione di beni assuma rilevanza penale, non essendo nell’art. 512 bis cod. pen. compreso anche il reato di autoriciclaggio.

Il ricorrente deduceva poi la inosservanza dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., per essere solo apparente la motivazione adottata in ordine al fumus sia dell’autoriciclaggio che del delitto presupposto, nonché l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 648 ter1 cod. pen.

Il Tribunale del riesame, dopo aver qualificato il reato come autoriciclaggio, aveva infatti ritenuto che dalle attività investigative era emerso un giro di affari e di rapporti economici con altre società, riconducibili a soggetti legati da rapporti di parentela con l’indagato, o coinvolti in altre operazioni caratterizzate “da anomalie fiscali o tributarie”.

Il Tribunale aveva in particolare ipotizzato che l’indagato avesse posto in essere una serie di operazioni illecite sul piano fiscale e tributario, che gli avevano consentito di entrare in possesso di somme di denaro di provenienza delittuosa.

Il ricorrente deduceva quindi che il delitto di autoriciclaggio non può avere quale presupposto mere “anomalie fiscali e tributarie”, laddove, peraltro, i fatti in questione erano anche avvenuti prima dell’entrata in vigore della legge istitutiva del delitto di autoriciclaggio, essendo pacifico che la “incriminata” cessione del ramo d’azienda era intervenuta a settembre 2014 e il successivo impiego nella gestione di aziende agricole, comunque facenti capo all’imputato, non costituiva alcuna ipotesi di reato.

Secondo la Suprema Corte il ricorso era fondato.

Autoriciclaggio e fittizia cessione di azienda: la sentenza della Corte di Cassazione

I giudici di legittimità evidenziano che, nel caso in esame, l’ordinanza impugnata era inficiata da violazione di legge con riguardo al fumus del reato di cui all’art. 512 bis cod. pen. e da motivazione apparente quanto al fumus del reato di cui all’art. 648 terl cod. pen.

Prendendo le mosse dal primo vizio, la Corte premette che l’art. 512 bis cod. pen. sanziona:

“chiunque attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648 bis e 648 ter cod. pen.”

L’art. 512 bis cod. pen., quindi, prevede una fattispecie a forma libera, che si concretizza nella dolosa determinazione di una situazione di apparenza giuridica e formale della titolarità o della disponibilità del bene, difforme dalla realtà, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, ovvero al fine di agevolare la commissione di reati relativi alla circolazione di mezzi economici di illecita provenienza, specificamente elencati.

Come già affermato dalla Cassazione (Cass., Sez. 1, n. 14373 del 28/2/2013), il tratto fondamentale del delitto di trasferimento fraudolento di valori è la consapevole determinazione di una situazione di difformità tra titolarità formale, meramente apparente, e titolarità di fatto di un determinato compendio patrimoniale, qualificata dalla specifica finalizzazione indicata dall’art. 512 bis cod. pen.

Tale finalizzazione, oltre all’elusione delle disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, può avere del resto ad oggetto anche l’agevolazione della commissione dei reati specificamente indicati dall’art. 512 bis cod. pen., ma non anche di altri.

Ciò in quanto le norme sfavorevoli sono di stretta interpretazione e, nei casi in cui una disposizione ricolleghi determinati effetti giuridici sfavorevoli alla commissione di reati specificamente indicati, senza ulteriori precisazioni, deve affermarsi che gli effetti sfavorevoli si producono esclusivamente per le fattispecie richiamate.

Ebbene, nel caso in esame, come visto, secondo l’imputazione, l’intestazione fittizia dei beni da parte dell’indagato in favore dei figli era diretta ad “agevolare la commissione del delitto di cui al capo seguente”, ossia l’impiego, nella gestione delle imprese agricole facenti capo all’indagato, di denaro di provenienza delittuosa, ricavato dalla fittizia cessione del ramo d’azienda.

Il Tribunale del riesame aveva poi riqualificato il delitto contestato al capo 2), ritenendo che il successivo riutilizzo del denaro, ricavato dalle ipotizzate condotte illecite, integrava il delitto di autoriciclaggio e non quello di riciclaggio.

E dunque era corretta la censura del ricorrente, secondo cui il Tribunale del riesame, nel ritenere che la fittizia intestazione delle società da parte dell’indagato era diretta ad agevolare le condotte illecite di cui al capo n. 2), qualificate come autoriciclaggio, non si era però reso conto che, conseguenzialmente, non poteva allora dirsi sussistente il fumus del reato di cui all’art. 512 bis cod. pen., in quanto tale reato non contempla, tra i suoi elementi costitutivi, il fine di agevolare il delitto di cui all’art. 648 ter. cod. pen.

Secondo la Suprema Corte, inoltre, doveva rilevarsi che nel provvedimento impugnato difettava una motivazione sufficiente a delineare il fumus del delitto di autoriciclaggio.

Autoriciclaggio e fittizia cessione di azienda: il delitto deve essere almeno “astrattamente” configurabile

Come già affermato in sede di legittimità (Cass., Sez. 5, n. 3722 dell’11/12/2019), il fumus commissi delicti per l’adozione di un sequestro preventivo, pur non dovendo integrare i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 cod. proc. pen., necessita infatti, comunque, dell’esistenza di concreti e persuasivi elementi di fatto, quantomeno indiziari, i quali, pur tenendo conto della fase processuale iniziale, consentano di ricondurre l’evento punito dalla norma penale alla condotta dell’indagato.

Nel caso in esame, tuttavia, pur tenendo conto che il sequestro era stato disposto nella fase iniziale del procedimento, connotata da un quadro indiziario suscettibile di successivi approfondimenti nel prosieguo delle indagini, secondo la Corte, doveva rilevarsi che nel provvedimento impugnato difettava l’indicazione degli elementi di fatto idonei a sussumere la vicenda nell’ambito del delitto di autoriciclaggio.

Il Collegio, pur consapevole che la giurisprudenza della Cassazione, richiamata nel provvedimento impugnato, è ferma nel ritenere che, ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio non si richiedono l’esatta individuazione e l’accertamento giudiziale del delitto presupposto, essendo sufficiente che lo stesso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti ed interpretati secondo logica, almeno astrattamente configurabile (ex multis: Cass., Sez. 2, n. 6584 del 15/12/2021), evidenzia che si è però anche precisato che ciò non esonera il giudice dalla necessità di individuare la tipologia di delitto all’origine del bene da sottoporre a vincolo, in quanto appunto di provenienza delittuosa, non risultando a tal fine sufficiente il richiamo ad indici sintomatici privi di specificità in ordine alla derivazione della disponibilità, oggetto di espropriazione, e suscettibili esclusivamente di provare un ingiustificato possesso di danaro (in termini, Cass., Sez., 2, n. 39006 del 13/7/2018; Sez. 2, n. 29074 del 22/5/2018; Sez. 2, n. 26301 del 2415/2016).

In conclusione, doveva quindi affermarsi che, ai fini della legittimità del sequestro di cose che si assumono pertinenti al reato di autoriciclaggio, pur non essendo necessaria la specifica individuazione e l’accertamento del delitto presupposto, è tuttavia indispensabile che esso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti, almeno astrattamente configurabile.

Situazione questa non ravvisabile quando il giudice si limiti semplicemente a supporne l’esistenza, sulla sola base del carattere asseritamente sospetto delle operazioni relative ai beni e valori che si intendono sottoporre a sequestro (in tal senso, ex multis, Cass., Sez. 2, n. 813 del 19/11/2003).

Nel caso in esame, in definitiva, ciò che il Tribunale del riesame aveva posto in luce era la realizzazione da parte dell’indagato di mere “anomalie fiscali o tributarie”, laddove però, secondo la Corte, tale indicazione non può esaurire la valutazione necessaria al fine di ritenere sussistente il fumus commissi delicti nei termini sopra indicati, essendo il delitto presupposto solo genericamente enunciato, e non avendo il Tribunale del riesame spiegato in cosa consistessero tali anomalie e se esse, peraltro, rivestissero rilievo penale.

Questo sito contribuisce all'audience di Logo Evolution adv Network