La riforma della giustizia tributaria

Riforma della giustizia tributaria: dall'iter del Disegno di Legge alle criticità delle novità inserite nel testo, un approfondimento sul tema con una carrellata dei nodi ancora da sciogliere.

La riforma della giustizia tributaria

Il Ministro dell’economia e delle finanze ed il Ministro della Giustizia avevano dato il via all’inizio dei lavori di una Commissione interministeriale, che avrebbe dovuto esprimere un proprio documento strategico, con l’obiettivo di analizzare e formulare proposte di intervento per una riforma della giustizia tributaria.

La Commissione ha poi presentato ai Ministri una relazione sull’esito dei lavori svolti.

La Commissione era stata in particolare incaricata di un duplice compito:

  • esaminare le criticità esistenti;
  • elaborare proposte di misure e di interventi legislativi, con l’obiettivo di migliorare la qualità della risposta giudiziaria e di ridurre i tempi del processo.

La Commissione ricordava le molte criticità dell’attuale sistema, tra cui:

  1. la notevole complessità e variabilità della normazione;
  2. la durata del processo;
  3. l’insufficiente livello di specializzazione dei giudici;
  4. le dimensioni quantitative del contenzioso tributario;
  5. la diffusa percezione d’una imperfetta indipendenza dei giudici tributari.

La conclusione era stata che una riforma strutturale fosse urgente e necessaria.

E la Commissione proponeva che tale riforma avvenisse secondo le seguenti linee direttrici:

  • intervenire sui procedimenti amministrativi tributari (precontenzioso), ampliando il contraddittorio e il ricorso all’autotutela;
  • migliorare l’offerta complessiva di giustizia, anche relativamente agli strumenti deflattivi del contenzioso, apportando correttivi alla conciliazione giudiziale;
  • colmare il deficit di informazione sulla giurisprudenza dei giudici tributari, così da incentivare la giustizia di tipo predittivo;
  • rafforzare la specializzazione dei giudici tributari;
  • consolidarne l’indipendenza dei giudici tributari sia sul piano del trattamento economico, sia su quello dell’istituzione che è chiamata a garantirla, cioè il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria;
  • apprestare migliori difese processuali degli interessi in gioco;
  • migliorare l’offerta di giustizia all’interno del giudizio di legittimità in Corte di Cassazione.

L’iter della riforma della giustizia tributaria

Dal 2013 ad oggi sono stati peraltro presentati 9 disegni di legge al Senato e 8 alla Camera aventi ad oggetto tale riforma; e in tutti si prevede che il giudice tributario debba essere un giudice professionale a tempo pieno.

Il metodo di reclutamento non mediante concorso dei giudici attuali, la natura onoraria dell’incarico, la struttura e il ridotto ammontare dei compensi erogati recano infatti un inevitabile pregiudizio alla qualità delle pronunce e alla produttività dei giudici.

Si è quindi posta attenzione alla predisposizione delle condizioni perché il legislatore delegato, in sede di attuazione della delega, addivenga alla creazione del ruolo dei giudici tributari.

In questa prospettiva, nel Ddl approvato in Consiglio dei Ministri, si è scelta dunque la strada del giudice tributario professionale e si prevede che:

  • i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, che abbiano svolto funzioni di giudice tributario onorario, possano chiedere la definitiva assegnazione, mediante procedura di selezione, ai ruoli della magistratura tributaria;
  • si è anche previsto, allo scopo di salvaguardare e valorizzare le professionalità esistenti, di prevedere nel concorso, da avviarsi per la selezione dei nuovi giudici professionali, una riserva di posti agli attuali giudici tributari.

Da segnalare, infine, che, nell’ottica di una migliore qualità delle decisioni tributarie di maggior valore (più facilmente destinate a pervenire fino alla Corte di Cassazione), si prevede che le liti minori, di valore non superiore ai 3.000 euro (con l’esclusione di quelle di valore indeterminabile) siano decise in primo grado da un giudice monocratico.

Rispetto alle prime conclusioni raggiunte dalla Commissione interministeriale, alcune buone proposte si sono del resto “perse”.

Tra queste, ad esempio, quella sul contraddittorio preventivo.

Il contraddittorio preventivo, come noto, consente al contribuente di anticipare la sua “difesa” rispetto alla eventuale fase contenziosa, ma ha anche lo scopo di consentire all’autorità fiscale di conoscere elementi di fatto e/o di diritto che assicurano un più fondato e legittimo esercizio del potere impositivo.

In questi termini il contraddittorio può avere un significativo effetto deflattivo sul contenzioso tributario.

In sede di Commissione interministeriale si proponeva quindi il riconoscimento normativo, con carattere di generalità, del diritto del contribuente al contraddittorio.

Di tale proposta non c’è traccia però nel Ddl.

Nel corso delle audizioni era stata poi da più parti evidenziata l’insoddisfazione per l’attuale struttura del reclamo/mediazione per le controversie di valore fino a 50.000 euro, così come delineata dall’art. 17 bis Dlgs. n. 546/1992.

In particolare, tale insoddisfazione nasce dal fatto che la mediazione viene gestita dallo stesso Ente impositore. Tuttavia, dai dati forniti dal MEF alla Commissione emerge che la percentuale di controversie potenziali, riguardanti l’Agenzia delle Entrate, che viene definita ai sensi dell’art. 17 bis è significativa, con ciò evidenziandosi l’effettiva portata deflattiva dell’istituto.

D’altra parte, il numero di controversie effettivamente instaurate che residua, all’interno dei valori definibili in mediazione, è comunque assai significativo. A ciò si aggiunga che non si dispone di alcun dato relativo alle controversie di competenza delle Regioni e degli EE.LL., per le quali si può ipotizzare che spesso il procedimento di mediazione non venga neanche avviato per l’assenza di idonee strutture amministrative.

Queste considerazioni inducevano dunque a ritenere che:

  • fosse opportuno prevedere un potenziamento degli istituti deflattivi;
  • e che la mediazione fosse affidata ad un apposito organo di mediazione, terzo rispetto agli Enti impositori.

Non si è però ritenuto di accogliere questi auspici, perdendo però così forse l’occasione di un intervento risolutorio in termini deflativi.

Alcune criticità nella riforma della giustizia tributaria

Si è preferito invece prevedere una conciliazione giudiziale su proposta del giudice, che però pone perplessità e criticità di sistema.

Il giudice dovrebbe infatti agevolare la conciliazione piuttosto che “formularla” (come si dice invece nel Ddl).

Quale parte, peraltro, a fronte di tale formulazione “oserebbe” opporsi?

Inoltre il testo del nuovo art. 48-bis.1 (Conciliazione proposta dalla Commissione tributaria) è poco comprensibile, laddove afferma che: “1. Per le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la commissione, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”.

Cosa significa “ove possibile”?

In tema di conciliazione sarebbe allora piuttosto preferibile prevedere un tentativo obbligatorio di conciliazione ad opera delle parti.

Quanto agli interventi relativi al giudizio di Cassazione, nel sistema attuale, la Corte di Cassazione interviene al termine del giudizio e, quindi, specialmente nella materia tributaria devoluta alla Quinta Sezione civile, a distanza di molti anni dal sorgere del contenzioso.

Al contrario, un’interpretazione autorevole e sistematica della Corte resa con tempestività, in poco tempo ed in concomitanza alle prime pronunzie della giurisprudenza di merito, può svolgere un ruolo deflattivo significativo.

Si propongono pertanto nel Ddl due novità di tipo processuale, tendenti a rendere più tempestivo l’intervento nomofilattico.

Il primo istituto, sulla scorta, peraltro, di esperienze straniere (e segnatamente dell’ordinamento francese che conosce la saisine pour avis), è denominato “rinvio pregiudiziale in cassazione” e consente al giudice tributario, in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si verrà a porre in numerose controversie, di chiedere alla Corte di legittimità l’enunciazione di un principio di diritto.

Il secondo istituto, aggiuntivo o sostitutivo rispetto al primo, è quello denominato “ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria”.

Tale strumento consente al Procuratore Generale presso la suprema Corte di Cassazione di formulare una richiesta al Primo Presidente della Corte di cassazione di rimettere una questione di diritto di particolare importanza che rivesta il carattere della novità o della serialità o che ha generato un contrasto nella giurisprudenza di merito, in modo che venga enunciato un principio di diritto nell’interesse della legge, cui il Giudice del merito tendenzialmente deve uniformarsi.

Il testo attuale del Ddl quanto al primo istituto prevede che “se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del ricorso nell’interesse della legge dinanzi alle Sezioni unite per l’enunciazione del principio di diritto. La pronuncia della Corte non ha effetto diretto sui provvedimenti dei giudici tributari”.

Ma allora, se non ha effetto diretto, cosa la si invoca a fare?

Si continua nel percorso verso il common law senza però poi prenderne le conseguenze. Si rischia così solo di appesantire ulteriormente il carico della Cassazione.

Quanto invece al rinvio pregiudiziale (secondo istituto – art. 62 ter), il comma 5 prevede che “5. Il provvedimento con il quale la Corte di cassazione definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio”.

La soluzione è anche interessante, ma, vista la complessità dell’attuale sistema tributario (e magari anche i giudici “novelli”) rischia di ingolfare ancor più la Cassazione. In sostanza c’è il rischio che la Cassazione venga chiamata sempre in causa e che finisca lei in sostanza per decidere il giudizio.

Un altro tema fondamentale affrontato poi nel Ddl è quello della prova testimoniale.

Il nuovo articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/92, come proposto nel Ddl in esame, prevede che “4. Non è ammesso il giuramento. La Commissione, anche senza l’accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del codice di procedura civile, quando la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso. In tali casi la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale”.

Il richiamo all’art. 257 bis del c.p.c. comporta che la Commissione, una volta ammessa la testimonianza, incaricherà la parte richiedente di predisporre il modello di testimonianza e notificarlo al testimone, che dovrà poi sottoscrivere la deposizione tramite firma autenticata e spedirla o consegnarla alla segreteria della Commissione Tributaria.

La criticità maggiore della proposta normativa attiene tuttavia al fatto che, considerato che ogni verbale dell’Amministrazione finanziaria, potrebbe rientrare, in linea generale, nell’ambito degli atti facenti fede sino a querela di falso, non si capisce esattamente quali possano essere le circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale.

Proviamo a fare dunque sul punto qualche ragionamento, anche sulla base della più recente giurisprudenza di legittimità.

Come infatti affermato dalla Corte di Cassazione, Ordinanza n. 15823 del 23 luglio 2020, in tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione assume un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, poiché in generale è possibile distinguere vari livelli di attendibilità e cioè:

  • (a) il verbale è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 cod. civ., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza, o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale e alle dichiarazioni a lui rese - questi dunque rientrano nella previsione normativa di esclusione della possibilità di prova testimoniale;
  • (b) in ordine invece alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni al pubblico ufficiale rese dalle parti o da terzi — ovvero anche alla veridicità sostanziale del contenuto di documenti formati dalla stessa parte o da terzi — esso rileva in termini di prova, nel senso che consente la prova contraria che può essere fornita qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice e alle parti l’eventuale controllo e la valutazione del contenuto delle dichiarazioni - queste dunque sembrano ammettere la prova testimoniale;
  • (c) in mancanza infine della indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, esso costituisce comunque un elemento di prova che il giudice deve valutare in concorso con gli altri elementi, e che può essere disatteso in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con gli altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, e qui fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore (cfr., Cass. n. 28060/17, Cass. n. 24461/18) - idem come punto b), quanto al contenuto delle dichiarazioni.

In sostanza, la prova testimoniale potrà essere acquisita in relazione a risultanze, oggetto di valutazione, emergenti da “dati esterni”, e quindi di non diretta attestazione da parte dei verbalizzanti come da essi compiuti, o avvenuti in loro presenza.

Ancora, alla parte alla quale sia riferita una scrittura privata (che nel processo tributario può ben essere semplicemente allegata al verbale di constatazione) è sempre consentito non solo disconoscerla, così facendo carico alla controparte della verificazione, ma anche di proporre direttamente, e alternativamente, la querela di falso, al fine di negare definitivamente la genuinità del documento.

In assenza di espresse limitazioni di legge, non può infatti negarsi alla parte di optare per uno strumento per lei senz’altro più gravoso, ma comunque finalizzato al perseguimento di un risultato più ampio e definitivo, quale quello della completa rimozione del valore dell’atto con effetti erga omnes (v. Cass. Sez. U n. 3734/86, e poi Cass. n. 2699/92, Cass. n. 3833/94, Cass. n. 19727/03, Cass. n. 1789/07).

Anche per queste fattispecie sembra dunque ammissibile la (nuova) prova testimoniale.

Tutte tali specificazioni, tuttavia, onde evitare un defatigante contenzioso che porti alle stesse conclusioni in via giurisprudenziale, dovrebbe essere oggetto di chiara indicazione normativa.

Riforma della giustizia tributaria: i nodi ancora da sciogliere

Tanto premesso, restano, in sostanza, ancora varie criticità su cui intervenire, tra cui, ad esempio:

  • ampliare il contraddittorio e il ricorso all’autotutela (chiarendo a tal proposito anche i profili di impugnazione del diniego);
  • migliorare gli strumenti deflattivi del contenzioso; mediazione in primis;
  • intervenire (meglio) sul divieto di testimonianza;
  • prevedere la creazione, ex lege, di una sezione speciale della Corte di Cassazione.

Da segnalare, infine, anche un’altra importante questione non affrontata dal Ddl: non è stato previsto alcun correttivo in ordine all’attuale meccanismo della pubblica udienza.

La costituzionalità delle norme che, nel sistema del 1972, escludevano la pubblicità delle udienze è stata esaminata in diverse occasioni dalla Corte.

Con una prima sentenza, pronunciata nel 1986 (sentenza n. 212/86), la Corte dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 39 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, nella parte in cui escludeva la pubblicità delle udienze.

La Corte concluse però affermando che l’esclusione della pubblicità delle udienze era in realtà correlata all’idea della natura amministrativa delle Commissioni tributarie, e che, una volta abbandonata tale impostazione, anche il principio secondo cui le udienze avanti alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado potevano non essere pubbliche avrebbe dovuto essere abbandonato.

Essa sollecitò quindi il legislatore a provvedere, ritenendo “assolutamente indispensabile, al fine di evitare gravi conseguenze, che il legislatore prontamente intervenga onde adeguare il processo tributario all’art. 101 della Costituzione, correttamente interpretato”.

Nel 1989 (Sentenza n. 50/89) la Corte, visto che il legislatore aveva disatteso le indicazioni contenute nella sua sentenza del 1986, dichiarò allora costituzionalmente illegittimo l’art. 39, comma 1, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, nella parte in cui escludeva la possibilità della pubblica udienza davanti alle Commissioni Tributarie di primo e di secondo grado.

Il problema della pubblicità delle udienze si è però poi riproposto con la riforma del 1992, perché l’art. 33 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 subordina la trattazione in pubblica udienza ad un’espressa richiesta di parte.

La norma è stata quindi accusata di incostituzionalità, per contrasto con gli artt. 24, 53 e 101 della Costituzione.

Ma, con sentenza 23 aprile 1998, n. 141, la Corte ha dichiarato ancora infondata la questione.

Il tema però ora, in vista di un giudizio degno di questo nome, si propone nuovamente con forza.

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