Le condizioni di obiettiva incertezza come esimenti per le sanzioni tributarie

Quando possono considerarsi sussistenti le condizioni di obiettiva incertezza in grado di esimere il contribuente dall'applicazione delle sanzioni?

Le condizioni di obiettiva incertezza come esimenti per le sanzioni tributarie

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 29876 del 30 dicembre 2020, ha chiarito quando possono considerarsi sussistenti condizioni di obiettiva incertezza in grado di esimere il contribuente dall’applicazione delle sanzioni.

Nel caso di specie, il giudice di secondo grado aveva accolto l’appello della società contribuente quanto alle sanzioni derivanti dalla notifica di un avviso di accertamento per Iva e altri tributi riferiti all’anno 2005, rigettandolo nel resto.

Avverso la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, deducendo la violazione dell’art. 6, comma 2, Dlgs. n. 472 del 1997, per avere, a suo avviso, la Commissione Tributaria Regionale erroneamente ritenuto la condotta dalla contribuente determinata da obiettive condizioni di incertezza, riferite alla interpretazione da dare ad alcune specifiche clausole contrattuali (in particolare sull’applicazione o meno di una clausola risolutiva espressa).

Secondo la Suprema Corte la censura era fondata.

Corte di Cassazione - Ordinanza numero 29876 del 30 dicembre 2020
Scarica l’Ordinanza della Corte di Cassazione numero 29876 del 30 dicembre 2020.

Quando si verificano le condizioni di obiettiva incertezza?

Evidenziano i giudici di legittimità che, come più volte affermato dalla Cassazione (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 22890 del 25 ottobre 2006; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 7502 del 27 marzo 2009; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 440 del 14 gennaio 2015; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 17195 del 26 giugno 2019), in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il potere delle Commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni in caso di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme alle quali la violazione si riferisce (potere conferito dall’art. 8 del Dlgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e ribadito, con più generale portata, dall’art. 6, comma 2, del Dlgs. 18 dicembre 1997, n. 472, e quindi dall’art. 10, comma 3, del Dlgs. 27 luglio 2000, n. 212) deve ritenersi sussistente quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratta, si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto.

Rileva inoltre la Corte che l’onere di allegare la ricorrenza di tali elementi di “confusione”, se esistenti, grava sul contribuente, dovendo quindi essere escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente, né, pertanto, che sia ammissibile una censura avente ad oggetto la mancata pronuncia d’ufficio su tale punto.

L’incertezza normativa oggettiva, sottolinea la Cassazione:

“postula quindi una condizione di dubbio non evitabile sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione normativa, riferibile non già ad un generico contribuente, o a quei contribuenti che per la loro perizia professionale siano capaci di interpretazione normativa qualificata (studiosi, professionisti legali, operatori giuridici di elevato livello professionale), e tanto meno all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione” (cfr., Cass., Sez. 5, Sentenza n. 13457 del 27 luglio 2012; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 13076 del 24 giugno 2015; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 23845 del 23 novembre 2016).

Venendo al caso in giudizio, già sotto tale profilo, era dunque evidente che la situazione di incertezza, sull’interpretazione delle previsioni contrattuali, creatasi in capo alle parti e alla società contribuente, in sé, non poteva avere alcuna rilevanza, occorrendo invece che la stessa incertezza si verificasse semmai in capo al giudice.

Del resto, rileva la Corte, sarebbe stato nella specie quasi paradossale ritenere sussistente l’incertezza in parola in forza di una clausola articolata e dedotta dalle parti stesse, che prima l’avevano creata, poi l’avevano sottoscritta, e infine ne denunciavano l’oscurità a proprio vantaggio.

Gli indici di obiettiva incertezza

In conclusione, sottolinea la Cassazione, in conformità a quanto già anche stabilito con Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 15452 del 13 giugno 2018, l’incertezza normativa oggettiva - che deve essere distinta dalla ignoranza incolpevole del diritto, come si evince dall’art. 6 del Dlgs. n. 472 del 1997 - è caratterizzata dalla “impossibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile” e può essere desunta da alcuni “indici”, quali, ad esempio:

  1. la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative;
  2. la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica;
  3. la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata;
  4. la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà;
  5. l’assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari;
  6. la mancanza di precedenti giurisprudenziali;
  7. l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale;
  8. il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale;
  9. il contrasto tra opinioni dottrinali;
  10. l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente.

E nel caso in esame nessuna di tali circostanze era sussistente, laddove, come visto, in realtà, la questione verteva piuttosto unicamente sulla interpretazione, più che del contenuto di una clausola contrattuale, dei fatti posti a base dell’operare o meno di detta clausola.

In conclusione, in termini più generali, giova anche evidenziare quanto segue.

Esclusa la rilevanza delle condizioni soggettive

Ai fini della rilevanza delle condizioni di incertezza come esimente per le sanzioni tributarie, viene esclusa qualsiasi rilevanza delle condizioni soggettive.

L’incertezza normativa oggettiva, pertanto, non ha il suo fondamento nell’ignoranza giustificata, ma nell’impossibilità di pervenire allo stato di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria, come accade, per esempio, quando solo con propria Circolare o comunicato l’Amministrazione finanziaria risolva i dubbi interpretativi (cfr., Cass., Sentenza n. 10126 del 11 aprile 2019).

Deve quindi sussistere insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione (cfr., Cass., Ordinanza n. 21307 del 29 agosto 2018), laddove l’incertezza normativa oggettiva tributaria, che consente di non applicare le sanzioni, è pertanto la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell’azione di tutti i formanti del diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sé ed accertata dal giudice, d’individuare, con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie.

Inoltre, come giustamente evidenzia anche la pronuncia in commento, trattandosi di un’esimente prevista dalla legge a favore del contribuente, l’onere di allegare la ricorrenza di tali elementi di confusione grava sul contribuente, secondo le regole generali in materia di onere della prova ex. art. 2697 cod. civ. (cfr., Cass., 7 dicembre 2017, n. 29368), laddove l’accertamento della sussistenza della oggettiva incertezza, ai fini della disapplicazione delle sanzioni, può essere operato dal giudice tributario solo in presenza di domanda del contribuente, la quale non può, pertanto, essere formulata per la prima volta in sede di appello o in sede di legittimità (cfr., Cass., Ord. n. 18388 del 09 luglio 2019).

L’inosservanza del divieto di introdurre una domanda nuova in appello (o un’eccezione nuova non rilevabile d’ufficio), ai sensi dell’art. 345 c.p.c. e, per il giudizio tributario, del Dlgs. n. 546 del 1992, art. 57 e, correlativamente, dell’obbligo del Giudice di secondo grado di non esaminare nel merito tale domanda è peraltro rilevabile d’ufficio in sede di legittimità, non rilevando in contrario neppure che l’appellato abbia accettato il contraddittorio sulla domanda anzidetta (Cass. nn. 11202 del 2003, 12417 e 19605 del 2004, e 28302 del 2005).

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