L’acquiescenza non è automatica rinuncia alla pretesa fiscale

Il pagamento di un atto che viene effettuato per evitare conseguenze pregiudizievoli o di carattere preclusivo non può essere considerato una rinuncia alla pretesa fiscale: lo chiarisce la Corte di Cassazione con l'Ordinanza numero 18905 del 2023

L'acquiescenza non è automatica rinuncia alla pretesa fiscale

Il pagamento della pretesa tributaria contenuta in un atto di recupero del credito da parte del contribuente costituisce rinuncia a contestare la pretesa del fisco solo se la rinuncia sia manifestata con una dichiarazione espressa o con un comportamento sintomatico particolare, purché entrambi assolutamente inequivoci.

Pertanto, il pagamento di un atto, effettuato al solo fine di evitare conseguenze pregiudizievoli o di carattere preclusivo, non costituisce rinuncia alla pretesa e, di conseguenza, l’atto può essere impugnato.

Queste le importanti conclusioni contenute nell’Ordinanza numero 18905 della Corte di Cassazione pubblicata il 4 luglio 2023.

Pagamento della pretesa tributaria e rinuncia alla pretesa fiscale: l’Ordinanza numero 18905 del 2023

La vicenda riguarda il ricorso proposto da una società avverso l’atto di recupero di somme dovute per l’anno 2007, a seguito di credito IVA indebitamente utilizzato in compensazione, e contestuale irrogazione di sanzioni.

Il ricorso è stato respinto dalla CTP ma la CTR ha ribaltato il giudizio. In particolare i giudici d’appello, accogliendo l’appello della società, hanno osservato che nessuna acquiescenza poteva derivare dall’avvenuto pagamento, da parte della società contribuente, della sanzione in misura intera, non potendo questo costituire rinuncia all’impugnazione dell’atto di recupero.

Inoltre, benché la disciplina all’epoca vigente inibisse l’accesso al ravvedimento operoso, una volta iniziato l’accertamento, con l’entrata in vigore della legge finanziaria, invece, si era consentita l’applicazione di detto istituto, con efficacia retroattiva, anche nei casi in cui detto controllo fosse già iniziato.

Pertanto, essendosi la società ricorrente avvalsa del ravvedimento operoso, l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto considerare i versamenti effettuati e, alla luce delle somme ingiunte e di quelle versate, procedere alla restituzione della differenza.

L’Amministrazione finanziaria ha impugnato la decisione di secondo grado dinanzi alla Corte di Cassazione, deducendo violazione degli artt. 3, 13 e 17, comma 2, del DLgs. n. 472 del 1997 (ratione temporis vigente), per avere la CTR errato nel ritenere applicabile la nuova disciplina del ravvedimento operoso, in quanto la società, dopo la notificazione dell’atto di recupero e prima di proporre il ricorso, aveva pagato l’integrale importo della sanzione irrogata, operando così una ricognizione di debito e rendendo l’atto di recupero definitivo, con conseguente estinzione dell’obbligazione tributaria.

Ritenendo infondati i motivi di doglianza della Parte Pubblica, la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle entrate.

Nel caso di specie, la società aveva già versato in data 30 luglio 2009 l’imposta indebitamente compensata, unitamente alle sanzioni calcolate in misura ridotta, avvalendosi dell’istituto del ravvedimento operoso; tale versamento è, quindi, precedente alla notificazione dell’atto di recupero impugnato, avvenuta in data 4 agosto 2009.

L’Ufficio sostiene che il nuovo pagamento dell’importo delle sanzioni in misura integrale, effettuato in data 18 settembre 2009, al solo fine di sbloccare il rimborso di un credito IVA, dopo avere ricevuto la notificazione dell’atto di recupero e prima di proporre il ricorso, avrebbe comportato una ricognizione di debito, rendendo l’atto di recupero definitivo, con conseguente estinzione dell’obbligazione tributaria.

Il parere della Corte di Cassazione sulla rinuncia alla pretesa fiscale

Ciò premesso, a parere della Corte di Cassazione, costituisce principio generale nel diritto tributario che non si possa attribuire all’acquiescenza l’effetto di precludere ogni contestazione in ordine all’an debeatur, salvo che non siano scaduti i termini di impugnazione e non possa considerarsi estinto il rapporto tributario.

In buona sostanza, le manifestazioni di volontà del contribuente, quando non esprimano una chiara rinunzia al diritto di contestare l’an debeatur, debbono ritenersi giuridicamente rilevanti solo per ciò che concerne il quantum debeatur, nel senso di vincolare il contribuente ai dati a tal fine forniti o accettati.

Ciò non esclude che il contribuente possa validamente rinunciare a contestare la pretesa del fisco, ma, perché tale forma di acquiescenza si verifichi, è necessario il concorso dei requisiti indispensabili per la configurazione di una rinuncia, e cioè:

  • 1) che una controversia tra contribuente e fisco sia già nata e risulti chiaramente nei suoi termini di diritto o, almeno, sia determinabile oggettivamente in base agli atti del procedimento;
  • 2) che la rinuncia del contribuente sia manifestata con una dichiarazione espressa o con un comportamento sintomatico particolare, purché entrambi assolutamente inequivoci.

Nel caso che ci occupa la contribuente ha ammesso che il pagamento integrale della sanzione irrogata era intervenuto dopo la notificazione dell’atto di recupero, al solo fine di poter conseguire il rimborso dell’IVA per l’anno 2007, poi effettivamente riconosciuto dall’Ufficio. Il pagamento non è stato, dunque, effettuato spontaneamente, ma al solo fine di evitare conseguenze pregiudizievoli o, comunque, di carattere preclusivo.

La sentenza impugnata ha fatto buon governo dei principi sopra enunciati, ritenendo applicabile al primo versamento della sanzione, calcolata in misura ridotta, effettuato prima della notificazione dell’atto di recupero, la nuova disciplina del ravvedimento operoso, prevista dall’art. 13 del DLgs. n. 472 del 1997, come modificato dall’art. 1, comma 637, della L. n. 190 del 2014, e non riconoscendo valore di rinuncia all’impugnazione di detto atto di recupero al successivo pagamento della sanzione in misura integrale.

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