Presupposti per l’individuazione di una stabile organizzazione personale

Quali sono i presupposti per l'individuazione di una stabile organizzazione personale?

Presupposti per l'individuazione di una stabile organizzazione personale

La Corte di Cassazione si è più volte pronunciata sul sempre controverso tema della stabile organizzazione.

Oggi ci soffermiamo su una datata ma sempre attuale ordinanza, la n. 36679/2022.

Nel caso di specie, all’esito di una verifica fiscale della Guardia di finanza, l’Agenzia delle Entrate aveva accertato, relativamente agli anni d’imposta dal 2004 al 2008, ai fini IRES ed IRAP, redditi non dichiarati da società svizzere, operanti nel settore del commercio internazionale di articoli tessili e di abbigliamento, assumendo che entrambe avessero una stabile organizzazione personale in Italia, integrata dal direttore delle due compagini, che, in tale qualità e nel nome e per conto delle due società, concludeva abitualmente, in Italia, i contratti con la loro clientela, costituita prevalentemente da imprese italiane.

L’individuazione di una stabile organizzazione personale sotto la lente di ingrandimento della Corte di Cassazione

Le società avevano proposto, avverso i rispettivi atti impositivi, distinti ricorsi, che la Commissione Tributaria Provinciale, con due diverse sentenze, aveva accolto.

I conseguenti appelli erano stati riuniti e rigettati dalla Commissione Tributaria Regionale.

L’Agenzia delle Entrate aveva quindi proposto ricorso per cassazione.

Sosteneva in particolare l’Amministrazione che il complesso normativo evocato richiedeva, ai fini della configurazione della stabile organizzazione personale, la dimostrazione, anche tramite prova solo indiziaria, che per entrambe le società il direttore stipulava abitualmente in Italia i contratti con la clientela.

Tanto premesso, l’Agenzia evidenziava che la ricostruzione della fattispecie di cui all’accertamento era anche supportata dalle dichiarazioni rese durante la verifica dallo stesso direttore, il quale aveva affermato di rivestire, sin dalla fine degli anni settanta, l’incarico per entrambe le società e di essere, per tale qualità, l’unico responsabile dei contratti sia di acquisto che di vendita.

Dichiarazioni in tal senso erano poi state rese anche da soggetti operanti per conto di alcune delle società italiane clienti delle due contribuenti, dalle quali risultava confermato il ruolo assunto dallo stesso direttore rispetto ai contratti commerciali conclusi con le fornitrici elvetiche.

Il quadro indiziario, poi, secondo la ricorrente, si arricchiva ulteriormente dal riscontro (tramite le risultanze dello strumento “telepass”), dei pedaggi autostradali relativi ad autovetture delle due società svizzere, in uso al direttore, dalle quali risultava che tali mezzi erano abitualmente presenti sul territorio italiano e transitavano comunque da varchi autostradali vicini alle sedi di clienti italiani.

Né, secondo l’Agenzia, era sufficiente ad elidere la rilevanza indiziaria la circostanza, dedotta dalle contribuenti ed affermata dalla CTR, che altre società italiane, clienti a loro volta di quelle elvetiche, avevano reso dichiarazioni relative alla conclusione di loro contratti non tramite il citato direttore, ma direttamente con la società madre, a volte anche a distanza, utilizzando le telecomunicazioni.

Infatti, secondo l’Agenzia, la fattispecie fiscale contestata non presupponeva necessariamente che tutti gli affari della società non residente fossero conclusi tramite la stabile organizzazione personale.

Inoltre, assumeva l’Amministrazione finanziaria, l’attività sostanziale di rappresentanza svolta dal direttore in Italia non sarebbe venuta meno neppure nelle ipotesi in cui i contratti tra le società elvetiche ed i clienti italiani fossero stati conclusi formalmente in Svizzera, o tramite sistemi di comunicazioni a distanza tra i contraenti, essendo la chiusura degli affari stata comunque preceduta dalla reale ed indispensabile attività dello stesso direttore, che, di fatto, raccogliendo gli ordini, predeterminava le conseguenze commerciali e contrattuali del conseguente rapporto.

Tanto meno, poi, la ricorrente, al contrario della CTR, riconosceva rilevanza all’assoluzione in sede penale del legale rappresentante delle due società, imputato di aver omesso le relative dichiarazioni fiscali, trattandosi di esito dipeso dall’inutilizzabilità, in quella sede, delle presunzioni, ammesse invece in sede tributaria.

Nel ritenere fondato il ricorso, la Suprema Corte rileva innanzitutto che la stabile organizzazione ha ricevuto una disciplina compiuta nell’ordinamento interno a seguito delle modifiche apportate dal Dlgs. 12.12.2003, n. 344 all’art. 162 TUIR.

Inoltre, nella specie, rilevava anche la già citata convenzione tra Italia e Svizzera.

Quanto al rapporto tra le due fonti, la ricorrente sottolineava che quella convenzionale, a sua volta conforme al modello Ocse, preesisteva al Dlgs. n. 344 del 2003.

Era quindi evidente la relazione di circolarità che, nella definizione e nell’interpretazione della nozione di stabile organizzazione, lega la norma interna, già modellata sui criteri convenzionali, alla specifica previsione convenzionale.

Fermo restando, comunque, che (come anche rilevato da Cass. 20/11/2019, n. 30140) le convenzioni, una volta recepite nel nostro ordinamento interno con legge di ratifica, acquistano il valore di fonte primaria, ai sensi dell’art.10, comma 1, Cost. e dell’art.117 Cost., come peraltro ribadito, nella materia tributaria, anche dall’art. 75 del Dpr. n. 600 del 1973 e dall’art. 169 del Dpr. n. 917 del 1986.

Sulla base di queste ultime norme, quindi, la Corte di Cassazione (Cass. 19/01/2009, n. 1138; Cass. 15/7/2016, n. 14474) ha non solo affermato il principio generale che le Convenzioni, per il carattere di specialità̀, così come le altre norme internazionali pattizie, prevalgono sulle corrispondenti norme nazionali, ma ha anche specificato che, in materia d’imposte sul reddito, le norme pattizie derivanti da accordi tra gli Stati prevalgono su quelle interne (Cass. 24/11/2016, n. 23984).

Tanto premesso, nel caso di specie non era controverso che il direttore fosse legittimato ad agire, e quindi a concludere contratti, in nome e per conto delle società svizzere, e che, in alcune circostanze, avesse negoziato i termini e le condizioni contrattuali con i clienti di queste ultime, a volte recandosi anche presso le sedi delle rappresentate elvetiche, oltre che, in alcuni casi, presso le sedi degli stessi clienti italiani.

E tanto meno risultava specificamente contestato che lo stesso fosse legato da un rapporto diretto con le società controricorrenti.

Nella sostanza, dunque, il citato direttore era inserito in un contesto organizzativo (del quale, come risultava dalla sentenza impugnata, in parte qua non contestata, facevano parte, anche in ruoli apicali, diversi suoi prossimi congiunti, presenti pure nella S.r.l. rappresentante fiscale in Italia delle due società svizzere), che escludeva che egli godesse di uno status indipendente.

Presupposti per individuare una stabile organizzazione: la posizione della Corte di Cassazione

Ciò che era invece effettivamente controverso era:

  • a) se il direttore avesse o meno esercitato, nei periodi d’imposta accertati, la legittimazione (della quale era pacificamente titolare) a concludere contratti (diversi dall’acquisto di beni) in nome delle società elvetiche;
  • b) in caso affermativo, se l’esercizio di tale potere fosse avvenuto nel territorio italiano;
  • c) in caso ulteriormente affermativo, se l’esercizio di tale facoltà nel territorio italiano fosse avvenuto abitualmente, con riferimento ai periodi d’imposta accertati.

Premesso che nel caso sub iudice si controverteva di imposte dirette, doveva dunque considerarsi che assumeva rilevanza anche il commentario Ocse al modello di convenzione bilaterale in materia di doppia imposizione.

Infatti, nella giurisprudenza di legittimità in materia di convenzioni per evitare le doppie imposizioni (ex plurimis Cass. 20/11/2019, n. 30140; Cass. 19/12/2018, n. 32842; Cass. 7/9/2018, n. 21865; Cass. 10/11/2017, n. 26638; Cass. 21/12/2018, n. 33218) viene riconosciuta rilevanza, in funzione interpretativa sia al modello di convenzione approvato in ambito Ocse nel 1963, aggiornato nel 1977 ed oggetto via via di ulteriori emendamenti, costituente uno schema-tipo di riferimento, e sia al commentario Ocse al relativo modello, il quale, pur non avendo valore normativo, costituisce, comunque, una raccomandazione diretta ai paesi aderenti all’Ocse (Cass. 28/7/2006, n. 17206).

Tanto premesso, fermo restando che dovevano applicarsi la norma pattizia e quella interna nelle versioni vigenti ratione temporis, l’evoluzione, nel 1977 e successivamente, del modello Ocse, secondo la Corte, non esclude la possibile rilevanza, almeno parziale, di supporto interpretativo, del relativo commentario, a sua volta evolutosi, laddove la stessa Ocse ha costantemente considerato che le modifiche agli articoli del modello di convenzione, ed i cambiamenti nel commentario che costituiscano un risultato diretto di tali modifiche, non rilevano ai fini della interpretazione o dell’applicazione di convenzioni precedentemente stipulate solo allorché le disposizioni di quelle convenzioni siano nella sostanza differenti da quelle degli articoli modificati.

In particolare, rileva la Cassazione, è vero che nel paragrafo 4 del commentario all’art. 5 del modello modificato nel 2017, è espressamente indicato che le modifiche al commentario - con riferimento alla nuova definizione di stabile organizzazione personale, alle attività preparatorie ed ausiliare ed alla antifragmentation rule - derivanti dalle modifiche al modello, si applicano solo per il futuro e non possono essere utilizzate per l’interpretazione dei vecchi trattati.

E tuttavia, secondo l’Ocse, i cambiamenti o le aggiunte apportate al commentario sono normalmente applicabili all’interpretazione ed all’applicazione delle convenzioni stipulate prima dell’adozione di queste. E possono, pertanto, essere di ausilio all’interpretazione delle convenzioni preesistenti.

La Corte di Cassazione, formulava quindi il seguente principio di diritto:

“In tema di imposte dirette, ai fini della definizione in termini sostanziali del concetto di stabile organizzazione personale, l’art. 5, par. 4 e 5, della Convenzione Italia-Svizzera contro le doppie imposizioni va interpretato anche con l’ausilio del Commentario OCSE al relativo Modello convenzionale, potendo a tal fine tenersi conto dei cambiamenti nel Commentario, successivi alla stipula della Convenzione, che non derivino direttamente da sopravvenute modifiche dello stesso articolo nel Modello OCSE e riflettano l’evoluzione dell’interpretazione della disposizione tra i paesi membri”.

In tale contesto, doveva peraltro anche considerarsi che l’Italia, con riferimento al paragrafo 33 del commentario all’art. 5 del modello, come modificato nel 2005 (ove si precisa che la partecipazione alla fase delle trattative da parte di agenti non muniti di poteri di rappresentanza non è elemento sufficiente a costituire una stabile organizzazione personale) ha formulato, l’osservazione, ribadita successivamente, secondo cui l’interpretazione del modello Ocse non può disattendere quella data dalla giurisprudenza nazionale, che ha ritenuto che la partecipazione alle trattative, sotto le direttive della società estera, possa costituire elemento idoneo ad integrare la fattispecie stabile organizzazione (cfr. Cass. 25/07/2002, n. 10925).

Pertanto, rientrava nell’ipotesi tipica normativa il caso nel quale la società svizzera disponga stabilmente in Italia di un agente non indipendente, munito di potere di rappresentanza e quindi abilitato a concludere contratti, anche se lo stesso deve agire sulla base di dettagliati ordini o direttive della società svizzera (cfr., Cass. 09/04/2010, n. 8488; conforme Cass. 29/04/2016, n. 8543).

E vi rientra altresì il caso in cui l’agente abbia il potere sostanziale di negoziare gli elementi ed i dettagli del contratto, vincolando di fatto l’impresa alle clausole negoziali predisposte dall’intermediario in sede di trattativa.

L’effettività del relativo potere sussiste quindi, ad esempio, anche laddove l’agente solleciti e riceva (ma non finalizzi formalmente) ordini inviati direttamente al magazzino dell’impresa estera, che li approvi regolarmente dandovi esecuzione; ed in generale è riscontrabile quando un soggetto, indipendentemente dalla formale conclusione dei negozi in nome dell’impresa non residente, determini la conclusione di contratti con quest’ultima, anche se successivamente perfezionati senza sostanziali modifiche dalla stessa impresa residente.

Una volta che si acceda ad un’interpretazione sostanziale del “potere di concludere contratti in nome dell’impresa”, ben possono quindi configurarsi ipotesi nelle quali la partecipazione della stessa persona, nell’interesse della società residente all’estero, pur se non espressa attraverso l’esercizio di una legittimazione rappresentativa formale, comunque risulti determinante per la conclusione ed il contenuto dell’affare.

In particolare, l’accertamento dell’abitualità nell’esercizio del potere di concludere i contratti richiede comunque che la relativa attività sia “qualcosa di più che meramente transitoria”, laddove l’entità e la frequenza dell’attività necessarie per concludere che l’agente esercita abitualmente l’amministrazione aggiudicatrice dipenderà dalla natura dei contratti e dall’attività del preponente”.

In conclusione, la Cassazione rileva che la CTR, nell’accertamento dell’insussistenza dell’elemento soggettivo, non aveva fatto buon governo dei principi sinora illustrati.

In particolare, la sentenza impugnata non aveva evidenziato quale interpretazione avesse adottato del potere di concludere contratti in nome delle imprese non residenti in questione, né quale fosse il “ruolo commerciale” che riconosceva al direttore, né quindi perché lo avesse ritenuto “solo procacciatore di affari”.

Infine, la giusta considerazione del non meglio identificato “giudicato penale” di assoluzione dell’amministratore delle due società, che escludeva, ai fini penali, la sussistenza della stabile organizzazione nel territorio nazionale, trasponeva acriticamente (senza alcun apprezzamento da parte della CTR) tale accertamento nel giudizio tributario, attribuendogli sostanzialmente rilevanza decisiva, senza considerare tuttavia che, per giurisprudenza consolidata, ove pure sussista effettivamente un giudicato penale sul fatto, il giudice tributario non può limitarsi alle sole risultanze del processo penale, ma, nell’esercizio dei suoi poteri, è tenuto a valutare tali circostanze sulla base del complessivo materiale probatorio acquisito nel giudizio tributario, non potendo attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile su reati tributari alcuna automatica autorità di cosa giudicata, attesa l’autonomia dei due giudizi, la diversità dei mezzi di prova acquisibili e dei criteri di valutazione (da ultimo, Cass. 04/12/2020, n. 27814, ex multis).

La CTR non aveva peraltro neppure correttamente applicato i principi che regolano il ragionamento inferenziale tipico della prova critica, giacché, a fronte di una molteplicità di indizi, non solo non aveva proceduto alla valutazione delle dichiarazioni rese dallo stesso direttore, ma neppure aveva dato conto di aver effettuato la doverosa ponderazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi, per accertare se essi fossero concordanti e se la loro combinazione fosse in grado di fornire una valida prova presuntiva (cfr. Cass. 06/06/2012, n. 9108; conformi, ex multis, Cass. 02/03/2017, n. 5374; Cass. 12/04/2018, n. 9059).

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