La riduzione IRES per gli istituti ecclesiastici

La Corte di Cassazione si è espressa di recente in tema di riduzione IRES per gli Istituti ecclesiastici, chiarendo in quali casi spetta l'agevolazione prevista dalla normativa

La riduzione IRES per gli istituti ecclesiastici

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 2899 del 2024, ha chiarito in presenza di quali presupposti spetta la riduzione IRES per gli Istituti ecclesiastici.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva emesso avvisi di accertamento con cui aveva recuperato a tassazione maggior IRES per gli anni di imposta 2011 e 2012 nei confronti di un Istituto ecclesiastico, disconoscendo l’agevolazione di cui all’art. 6, primo comma, lett. c), del d.P.R. n. 601 del 1973.

L’ente proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale, che lo accoglieva con sentenza poi confermata anche dalla Commissione Tributaria Regionale.

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La riduzione IRES per gli istituti ecclesiastici: il caso analizzato

In particolare, i giudici d’appello affermavano che l’agevolazione competeva non solo agli enti con fine di religione o culto, ma anche per le attività dirette a tali fini, laddove comunque, da una parte, gli Istituti come quello in giudizio avevano un chiaro vincolo di scopo, e, dall’altra, la conservazione e gestione dei cespiti non poteva integrare attività commerciale.

L’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell’art. 6 del d.P.R. n. 601 del 1973, dell’art. 7 n. 3 dell’accordo tra Stato italiano e Santa Sede del 1984, ratificato dalla L. n. 121 del 1985, degli artt. 15 e 16 della L. n. 222 del 1985 e dell’art. 53 Cost., evidenziando, in particolare, che l’agevolazione in esame richiedeva non solo la qualifica dell’ente, ma anche la valutazione della natura dell’attività svolta (criterio oggettivo), che doveva essere infatti coerente con il fine istituzionale perseguito, o comunque ad esso connessa da un rapporto di strumentalità diretta ed immediata.

Deduceva ancora l’Amministrazione finanziaria che era del resto lo stesso art. 7, comma 3, dell’accordo tra Stato italiano e Santa Sede, di cui alla L. n. 121 del 1985, a prevedere che gli enti ecclesiastici potessero svolgere attività diversa da quella di religione o culto e che in questo caso tali attività fossero assoggettate al regime tributario ordinariamente previsto per le medesime, non potendo quindi la natura dell’attività essere presunta, né potendo ritenersi presuntivamente accertato che i proventi derivanti dalla riscossione dei canoni di locazione fossero destinati in ogni caso ad integrare il compenso percepito dei religiosi, senza che l’ente avesse mai dimostrato l’effettiva destinazione degli stessi proventi.

L’errore commesso dalla CTR, in sostanza, secondo la ricorrente, consisteva nell’aver ritenuto che l’attività di locazione degli immobili e di un’azienda agraria costituisse, di per sé, attività strumentale meritevole dell’esenzione, finendo per attribuire a quest’ultima natura di mera agevolazione soggettiva, peraltro in contrasto con i principi comunitari.

I giudici di legittimità nell’esaminare il ricorso e nel ritenerlo fondato fanno innanzitutto riferimento a diversi, recenti, precedenti della Corte (Cass., 16/01/2023, n. 1164; Cass., 5/04/2023, n. 9394; Cass., 5/04/2023, n. 9409; Cass., 17/04/2023, n. 10201; Cass., 18/04/2023, n. 10400).

La Corte di Cassazione evidenzia quindi che l’art. 6, primo comma, lett. c), del d.P.R. n. 601 del 1973 prevede che l’imposta sul reddito delle persone giuridiche è ridotta alla metà nei confronti degli enti il cui fine è equiparato per legge ai fini di beneficenza o di istruzione, purché in ogni caso tali enti abbiano personalità giuridica (secondo comma).

L’art. 7, n. 3, dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apportava modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, ratificato con la L. 25/03/1985, n. 121, prevede a sua volta che “Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione" e che «le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”.

Tanto premesso, la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte ritiene, al fine del riconoscimento dell’agevolazione dell’art. 6 d.P.R. n. 601 del 1973, che non sia sufficiente il mero requisito soggettivo, occorrendo altresì accertare che l’attività in concreto esercitata dagli enti non abbia carattere commerciale, in via esclusiva o principale, ed inoltre, in presenza di un’attività commerciale di tipo non prevalente, che la stessa sia comunque in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con quei fini, non limitandosi a perseguire il procacciamento di mezzi economici, dovendo altrimenti essere classificata come “attività diversa” soggetta all’ordinaria tassazione (cfr., Cass., 13/12/2016, n. 25586).

Un’attività volta al mero procacciamento di mezzi economici non sarebbe infatti coerente rispetto al fine (di religione o di culto), in quanto indifferentemente utilizzabile per il perseguimento di qualsiasi altro fine.

L’esistenza del fine di “religione o di culto” rappresenta dunque una condizione necessaria, ma non sufficiente, per la spettanza dell’agevolazione, in quanto, come detto, il beneficio non è applicabile solo in ragione della qualificazione soggettiva dell’ente, ma assume rilevanza anche l’elemento oggettivo, rappresentato appunto dal tipo di attività svolta.

Tale interpretazione è del resto coerente con la considerazione che l’agevolazione, configurando un’eccezione al principio di corrispondenza fra capacità contributiva e soggettività tributaria (quale immediata applicazione del canone costituzionale di cui all’articolo 53 della Costituzione), “può giustificarsi solo in ragione della considerazione della attività che determinate categorie di contribuenti svolgono” (Consiglio Stato, parere 8/10/1991, n. 1296) e con la considerazione che le norme agevolatrici sono norme eccezionali e quindi di stretta interpretazione (cfr., Cass. n. 25586 del 2016), con onere della prova a carico del soggetto richiedente in ordine al possesso di tutti i requisiti necessari per la fruizione del beneficio fiscale.

In un tale contesto, per quanto di interesse, dato per acquisito l’elemento soggettivo, andava dunque tra le altre verificata la possibilità di considerare l’attività di concessione a terzi di locazione di immobili come strumentale e diretta al fine statutario.

A tal proposito la Cassazione conclude nel senso che la disposizione recata dall’art. 6 del d.P.R. n. 601 del 1973 può applicarsi anche ai proventi derivanti dalla locazione del patrimonio immobiliare, ma a due condizioni (cfr., anche Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 15E del 15 maggio 2022).

In primo luogo, si deve essere in presenza di un mero godimento del patrimonio immobiliare, finalizzato al reperimento di fondi necessari al raggiungimento dei fini istituzionali dell’ente; circostanza che si configura quando la locazione di immobili si risolve nella mera riscossione dei canoni, senza una specifica e dedicata organizzazione di mezzi e risorse funzionali all’ottenimento del risultato economico.

In particolare, quindi, al fine di escludere lo svolgimento di una attività organizzata in forma di impresa, occorre verificare, caso per caso, che l’ente non impieghi strutture e mezzi organizzati con fini di concorrenzialità sul mercato, laddove, ad esempio, alcuni indici idonei ad individuare un’attività commerciale sono i seguenti:

  • la ripetitività con la quale si immette sul libero mercato degli affitti il medesimo bene in ragione della stipula di contratti di breve durata;
  • la consistenza del patrimonio immobiliare gestito;
  • l’adozione di tecniche di marketing finalizzate ad attirare clientela;
  • il ricorso a promozioni volte a fidelizzare il locatario;
  • la “presenza attiva” in un mercato con spot pubblicitari ad hoc, insegne o marchi distintivi.

L’ipotesi di mero godimento ricorre invece quando gli immobili sono posseduti al mero scopo di trarne redditi di natura fondiaria, attraverso i quali l’ente si sostiene e si procura i proventi per poter raggiungere i fini istituzionali, compiendo quindi soltanto gli interventi conservativi, quali la manutenzione o il risanamento del bene, ovvero quelli migliorativi atti a consentirne un uso idoneo.

Nel caso poi in cui si verta in ipotesi di mero godimento, occorre che tali proventi siano effettivamente ed esclusivamente impiegati nelle attività di “religione o di culto” e cioè nel fine istituzionale dell’ente, laddove, nell’ipotesi in cui l’ente svolga solo attività di “religione o di culto”, il reinvestimento nelle attività istituzionali rappresenta l’unica destinazione possibile dei proventi derivanti dal mero godimento del patrimonio immobiliare. Qualora, invece, l’ente svolga anche altre “attività diverse”, la destinazione dei proventi alle attività istituzionali dovrà risultare da apposita documentazione.

La riduzione IRES per gli istituti ecclesiastici: le conclusioni

Nel caso di specie, in definitiva, alla luce di tali principi, la CTR aveva di fatto riconosciuto l’agevolazione in base alla sola circostanza che l’attività dell’Istituto fosse di per sé attività di religione o culto e alla considerazione che i proventi fossero utilizzati per il sostentamento del clero, sottraendosi così alla necessità di accertare, quanto ai redditi di locazione, in primo luogo che l’ente non impiegasse strutture e mezzi organizzati con fini di concorrenzialità sul mercato, e, in secondo luogo, la circostanza che i proventi fossero comunque destinati direttamente alle attività istituzionali.

A prescindere dallo specifico caso processuale, si ricorda che il tema delle esenzioni fiscali concesse agli Istituti ecclesiastici ha determinato e determina ancora molti contenziosi.

La Commissione Europea ha infatti ordinato all’Italia di recuperare gli aiuti di Stato illegali concessi a determinati enti non commerciali sotto forma di esenzione dall’imposta comunale sugli immobili (ICI) dal 2006 al 2011, compresi quelli di proprietà della Chiesa.

Come riferito lo scorso anno da un portavoce Ue nel corso del punto stampa quotidiano, “Gli enti che svolgono attività non economiche, come quelle strettamente religiose, non saranno interessati dall’ordine» di recupero degli aiuti di Stato, "tuttavia quando tali attività hanno natura economica il fatto che siano svolte da enti non commerciali non preclude la disciplina degli aiuti di Stato”.

L’esecutivo comunitario ha quindi evidenziato che il recupero non è richiesto quando gli aiuti sono concessi per attività non economiche o quando costituiscono aiuti de minimis , laddove per fare una tale distinzione un riferimento potrebbe essere dato dall’art. 3 del Regolamento 200/2012, che stabilisce che tali attività sono svolte con modalità non commerciali quando l’atto costitutivo o lo statuto dell’ente non commerciale prevedono:

  • il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’ente, in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori, a meno che la destinazione o la distribuzione non siano imposte per legge, ovvero siano effettuate a favore di enti che per legge, statuto o regolamento, fanno parte della medesima e unitaria struttura e svolgono la stessa attività ovvero altre attività istituzionali direttamente e specificamente previste dalla normativa vigente;
  • l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili e avanzi di gestione esclusivamente per lo sviluppo delle attività funzionali al perseguimento dello scopo istituzionale di solidarietà sociale;
  • l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente non commerciale in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altro ente non commerciale che svolga un’analoga attività istituzionale, salvo diversa destinazione imposta dalla legge.

Per il futuro un intervento normativo sarebbe comunque opportuno, magari specificando che le attività istituzionali possono considerarsi svolte con modalità non commerciali se:

  • risultano prive di scopo di lucro;
  • non si pongono in concorrenza con altri operatori aventi scopo lucrativo;
  • costituiscano espressione dei principi di solidarietà e sussidiarietà.

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