La responsabilità penale del professionista attestatore

Giovambattista Palumbo - Leggi e prassi

La nuova formulazione del reato di falso in attestazioni o relazioni, art. 342 CCII, ricalca la struttura dell'ex art. 236 bis L.f. e consiste nell'esposizione di informazioni false o nell'omissione di informazioni da parte del professionista attestatore. Si tratta di una fattispecie di complessa applicazione nella prassi giudiziaria

La responsabilità penale del professionista attestatore

Il reato di falso in attestazioni o relazioni, ex art. 236 bis L.f., oggi sostituito dall’art. 342 CCII, che, come di seguito meglio evidenziato, ne ha comunque ricalcato la struttura, consiste, sostanzialmente, nella esposizione, da parte del professionista attestatore, di informazioni false, oppure nella omissione di informazioni rilevanti.

La Relazione illustrativa del d.l. n. 83/2012, con specifico riferimento alla disposizione dell’art. 236 bis, chiariva che la introduzione del delitto di falso in attestazioni e relazioni, oltre che “per saldare i meccanismi di tutela e bilanciare adeguatamente il ruolo centrale riconosciuto al professionista attestatore nell’intero intervento normativo”, s’impone anche “per evitare asimmetrie irragionevoli, in ottica costituzionale, rispetto alla rilevanza penale della condotta dell’organismo di composizione della crisi da sovraindebitamento del debitore non fallibile che rende false attestazioni in ordine alla veridicità dei dati contenuti nella proposta e nei documenti a essa allegati ovvero in ordine alla fattibilità del piano di ristrutturazione dei debiti proposto dal debitore, a norma dell’art. 19, comma 2, della legge n. 3 del 2012”.

L’Ufficio Studi della Corte di Cassazione, con Relazione n. III/7/2012 del 13 luglio 2012, nel richiamare il contenuto della detta Relazione illustrativa, evidenziava inoltre che “…il bene oggetto di tutela” ai sensi dell’art. 236 bis L.f., “sembra dunque identificarsi con l’affidamento di cui devono godere le menzionate relazioni ed attestazioni in relazione al loro contenuto e in funzione del certo e sollecito svolgimento delle procedure paraconcorsuali cui le stesse accedono qualificando in definitiva la nuova fattispecie come reato contro la fede pubblica. Bene quest’ultimo la cui tutela risulta comunque strumentale a quella degli interessi patrimoniali del ceto creditorio – utente privilegiato e, in un certo senso, naturale delle relazioni e attestazioni oggetto materiale del reato – come del resto sembra suggerire proprio il contenuto della seconda delle aggravanti…”.

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La responsabilità penale del professionista attestatore: il caso di specie

La condotta descritta dall’art. 236 bis L.f. consiste dunque nella esposizione di “informazioni false”, ovvero nella omissione di “informazioni rilevanti”.

Stante la genericità della qualificazione “rilevante”, utilizzata peraltro dal Legislatore per definire soltanto le informazioni omesse, una ulteriore questione che si pone sul piano pratico è quella di stabilire quando una informazione debba essere considerata e, quindi, idonea a integrare la fattispecie di reato.

Una ulteriore questione è poi, ancora, quella di stabilire se le “informazioni” a cui fa riferimento l’art. 236 bis L.f. siano rappresentate soltanto dai dati aziendali oggettivi, oppure anche da giudizi/valutazioni.

Nelle procedure in esame, del resto, i giudizi sono caratterizzati da un margine di discrezionalità tecnica a cui è necessario fare riferimento nelle relazioni o attestazioni, che risultano basate non solo sui dati aziendali (patrimoniali, economici e finanziari), ma anche sui criteri e metodologie previsti dalla scienza aziendale.

Sul punto possiamo ad esempio richiamare la pronuncia del Tribunale di Benevento del 02/05.2013, in cui è dato leggere: “…l’attestatore deve enunciare, in maniera ordinata e coerente, i criteri ricognitivi, estimativi e prognostici seguiti, in modo da rendere manifesti il percorso logico, i ragionamenti e le motivazioni su cui si fonda l’attestazione. Con specifico riguardo all’attestazione di veridicità dei dati aziendali, il giudizio dell’attestatore non può limitarsi a una mera dichiarazione di conformità, ovvero di corrispondenza formale dei dati utilizzati per la predisposizione del piano a quelli risultanti dalla contabilità, ma, al contrario, comporta che il professionista accerti e attesti che i dati in questione siano effettivamente reali” (cfr., anche Tribunale Firenze, 9.2.2012, nonché Tribunale Mantova, 28.5.2012).

Secondo la interpretazione consolidata, in sostanza, il concetto di “veridicità” deve essere ricondotto a quello di “rappresentazione veritiera e correttaex art. 2423 c.c..

In questa prospettiva, il professionista è dunque tenuto a esaminare e verificare i singoli elementi contabili ed extracontabili su cui il piano si fonda rilevanti ai fini dell’attuabilità del piano stesso, prestando particolare attenzione ai crediti rilevanti e alle componenti del capitale circolante che generano flussi di cassa, oltre che a quegli elementi con profili di rischio maggiormente elevato (avviamenti, Fondi di rischio e oneri etc.).

Al fine di effettuare l’attestazione della veridicità dei dati, il professionista deve quindi verificare la reale consistenza del patrimonio dell’azienda, esaminando e vagliando gli elementi che lo compongono ed effettuando le opportune verifiche. Il tutto con “criterio di prudenza”, ovvero assumendo, nel dubbio, le attività esposte al valore più basso. Analogamente, quanto alle passività, nel dubbio, si dovrà assumere il valore più alto.

Elemento fondamentale del reato è, infine, quello psicologico, essendo punibile a titolo di dolo generico nella fattispecie base, e specifico, nella ipotesi aggravata, laddove il dolo generico deve investire tutti gli elementi della fattispecie di reato, consistendo quindi nella consapevolezza della falsità delle informazioni esposte e/o della omissione di informazioni, nonché della rilevanza di tali informazioni, e nella volontà di esporre informazioni false e/o di omettere di riferire informazioni rilevanti.

Affinché sussista il dolo specifico con riguardo alla ipotesi aggravata del reato in esame sono del resi necessarie anche la consapevolezza e volontà di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri.

Il dolo non può comunque ritenersi implicito nella materialità del fatto, vale a dire in re ipsa e, quindi, va rigorosamente provato.

Forse anche per la difficoltà di tale prova, il delitto di falso in attestazioni e relazioni, fin dalla sua introduzione, ha avuto scarsissima applicazione nella prassi giudiziaria.

In tal senso una delle poche sentenze edite riguardante il delitto di falso in attestazioni e relazioni è quella del Tribunale di Alessandria, sent. 18 luglio 2019 (dep. 14 ottobre 2019), nell’ambito della quale veniva accertato che il professionista attestatore aveva consapevolmente omesso di indicare informazioni rilevanti, compilando una relazione fortemente rivolta a permettere all’imprenditore in crisi di accedere alla procedura di concordato preventivo. E, peraltro, non potendo neppure esser chiamato a svolgere tale delicato incarico per mancanza dei requisiti di indipendenza ed imparzialità, espressamente richiesti dall’art. 67, comma 3, L. fall.

In particolare, sul versante soggettivo, il dolo risultava nella specie provato dalle “reiterate anomalie” rinvenibili nell’intera relazione, da cui emergeva un atteggiamento di “piena e acritica adesione” agli intenti dell’imprenditore. Tale assunto trovava del resto un decisivo riscontro anche nel fatto che il professionista fosse, sin dall’inizio, sprovvisto dei requisiti di indipendenza e di imparzialità espressamente richiesti dall’art. 67, comma 3, L. fall., dal momento che, prima di assumere l’incarico, aveva preso parte alla gestione contabile della stessa società e si era occupato di alcune delicate questioni tributarie per suo conto.

Altra pronuncia interessante è infine quella della Corte di Appello di Trento, sentenza n. 137 del 10 luglio 2020.

La Corte perveniva però, in quel caso, alla pronuncia assolutoria nei confronti dell’appellante professionista.

Dopo aver richiamato la sentenza della Sezione Unite della Corte di Cassazione 27 maggio 2016, n. 22474, che aveva già chiarito che i fatti oggetto di valutazione, anche da parte del professionista attestatore, assumono rilevanza penale, e dopo aver evidenziato che la giurisprudenza di merito si è andata consolidando nel senso che all’attestatore è richiesta, con specifico riferimento all’attestazione di veridicità dei dati aziendali, non una mera dichiarazione di conformità, ma controlli ed analisi che gli consentano di accertare ed attestare se i dati contabili aziendali siano effettivamente reali, i giudici di secondo grado evidenziavano che per indagare se il giudizio espresso dall’accertatore fosse o meno falso, occorreva comunque analizzare il metodo e le tecniche da lui seguite nell’ambito dell’attestazione, con la conseguenza che, qualora avesse operato in maniera coerente, ragionevole e conforme alle regole dell’arte, non poteva comunque essere destinatario di conseguenze penali.

Nel caso di specie, secondo la Corte, difettava quindi la prova relativa all’elemento soggettivo del reato in contestazione, essendo emersa la bontà complessiva dell’operato dell’attestatore e del piano concordatario, tanto che su questo il Commissario giudiziale aveva espresso giudizio positivo e il Tribunale fallimentare aveva omologato la procedura di concordato preventivo non rilevando profili di inammissibilità.

La responsabilità penale del professionista attestatore: come è cambiato il ruolo nella nuova formulazione

Tanto premesso, la nuova formulazione dell’art. 342 CCII ricalca, pur con delle eccezioni, la struttura normativa del precedente art. 236-bis L. fall., risultando quindi anche ad essa applicabili i principi interpretativi già espressi sulla precedente versione normativa.

Il disposto di cui all’art. 342 CCII lascia infatti immutate le condotte tipiche, sempre coincidenti con “l’esposizione di informazioni false” o con “l’omissione di informazioni rilevanti”, aggiungendo però la locuzione “in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati”.

In conformità a quanto espresso anche dalla Relazione illustrativa, le precisazioni circa il contenuto delle informazioni rilevanti non sembrano comunque comportare un restringimento dei margini operativi della fattispecie di reato.

Vero è però che, con l’entrata in vigore del nuovo codice, il ruolo dell’attestatore è destinato a contrarsi, specialmente nella procedura di concordato preventivo, laddove il Tribunale è incaricato di svolgere un ulteriore controllo sulla “fattibilità economica della proposta”, rendendo così meno decisivo il giudizio dell’esperto.

Si evidenzia infine che la nuova norma, richiamando espressamente l’art. 88, commi 1 e 2, CCII, fa riferimento alle attestazioni che attengono al valore di mercato dei beni e al profilo della convenienza, anche se non si comprende perché nella stessa norma non è stato invece richiamato anche l’art. 63, relativo all’attestazione del professionista sui crediti fiscali e previdenziali oggetto di transazione fiscale.

In definitiva una fattispecie di non facile applicazione su cui bisognerà attendere le evoluzioni della giurisprudenza, ad oggi ancora molto scarsa.

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