Deducibilità dei costi per operazioni inesistenti

Sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti anche in caso di consapevolezza del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità ovvero relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo. Stesso discorso non vale, però, per l'IVA. I dettagli nell'Ordinanza della Corte di Cassazione n. 19169 del 2021.

Deducibilità dei costi per operazioni inesistenti

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 19169 del 06 luglio 2021, ha chiarito il trattamento impositivo, in tema di imposte sui redditi e Iva dei costi per operazioni inesistenti.

Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva accolto l’appello proposto dalla società contribuente avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva rigettato il ricorso contro avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate per gli anni 2007 e 2008.

Il giudice d’appello evidenziava, tra l’altro, che era onere dell’Amministrazione finanziaria dimostrare che il soggetto passivo interessato alle operazioni, in caso di frode carosello, fosse consapevole che l’operazione da cui generava una detrazione era inserita in una operazione elusiva.

Inoltre, la CTR rilevava che, ai sensi dell’art. 8 del Dl. n. 16 del 2012, convertito con legge n. 44 del 2012, era stata comunque prevista la deducibilità delle fatture soggettivamente inesistenti e la possibilità di applicare la norma in modo retroattivo.

Corte di Cassazione - Ordinanza numero 19169 del 6 luglio 2021
Il testo integrale dell’Ordinanza della Corte di Cassazione numero 19169 del 6 luglio 2021.

Deducibilità dei costi per operazioni inesistenti: i fatti dell’Ordinanza n. 19169 del 2021

Nella specie, motivava il giudice di appello, la società aveva provveduto a registrare regolarmente le fatture di acquisto, aveva tenuto il libro giornale con l’annotazione delle singole operazioni, le annotazioni erano state scritte anche sui mastrini e vi era corrispondenza con gli estratti conto bancario in relazione a ciascuna operazione.

Pertanto, se ne deduceva che i costi rappresentati dalle fatture erano effettivi e reali.

L’Ufficio aveva del resto fornito solo presunzioni semplici in ordine alla fittizietà delle operazioni, laddove, sottolineavano i giudici, la società avrebbe dovuto fornire la prova contraria solo se l’Agenzia delle Entrate avesse basato la propria tesi su elementi certi concreti.

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, la violazione del Dpr. n. 600 del 1973, articoli 39 e 40 e del Dpr. n. 633 del 1972, articoli 19, 21 e 54, nonché degli articoli 2697, 2727 e 2729 c.c., laddove il giudice d’appello aveva ritenuto che l’Ufficio, per provare l’inesistenza delle operazioni sottese alle fatture, doveva fornire elementi atti a dimostrare, in modo certo e diretto, che l’operazione commerciale non fosse stata mai posta in essere.

Tuttavia, rilevava l’Agenzia, se è vero che spetta all’Amministrazione l’onere di dimostrare la fittizietà delle operazioni commerciali, tale prova può essere però fornita anche in via presuntiva, con presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.

Non occorre, dunque, sosteneva la ricorrente, che la prova dell’Amministrazione sia “certa”, essendo sufficiente la sussistenza di una probabilità di alto grado della conformità dell’accertamento alle indicazioni presuntive. Presunzioni che possono ricavarsi anche dalla natura di cartiera della società cedente e dall’avere questa omesso di versare le relative imposte.

L’Agenzia censurava poi la sentenza per avere il giudice d’appello erroneamente ritenuto sussistere le operazioni sottese alle fatture, basandosi esclusivamente sulla regolarità formale delle operazioni o dei pagamenti effettuati, laddove, in realtà, la stessa giurisprudenza di legittimità afferma che non è sufficiente la regolarità della documentazione contabile esibita, o l’effettivo versamento del corrispettivo, trattandosi di circostanze non concludenti, in quanto la prima è insita nella stessa nozione di operazioni soggettivamente inesistenti e la seconda é relativa ad un dato di fatto inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode.

Era dunque necessario dimostrare che le prestazioni fossero state effettivamente ottenute dalla società contribuente, la quale non aveva comunque fornito la prova contraria circa il fatto che l’apparente fornitore non era un mero soggetto fittiziamente interposto e che l’operazione era stata realmente conclusa con esso.

Né, rileva ancora l’Amministrazione finanziaria, la società aveva infine dimostrato di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene non era colui che aveva emesso la fattura, nonostante l’impiego della dovuta diligenza.

Infine, con altro motivo di impugnazione, la ricorrente deduceva la violazione del Dpr. n. 917 del 1986, art. 109, quinto comma, della legge n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, in combinato disposto con l’art. 8 del decreto-legge n. 16 del 2012, convertito con legge n. 44 del 2012, nonché dell’art. 2697 c.c., laddove il giudice d’appello aveva ritenuto che l’art. 8 del decreto-legge n. 16 del 2012 fosse applicabile in modo retroattivo.

Tuttavia, secondo la ricorrente, i costi relativi alle fatture erano indeducibili ai sensi dell’art. 109, comma 5, del TUIR, in quanto artificiosamente inseriti nell’apparato contabile.

Né tale deducibilità era consentita dall’art. 14, comma 4-bis della legge 537 del 1993, in quanto l’applicazione della nuova disciplina non poteva prescindere dal riscontro dell’esistenza di tutti i requisiti generali di deducibilità dei costi, sicché la società avrebbe dovuto dimostrare, in concreto, l’esistenza dei requisiti di effettività, competenza, certezza ed oggettiva determinabilità, ovvero dell’inerenza rispetto all’attività svolta.

Secondo la Suprema Corte il ricorso era da accogliere, con le precisazioni che seguono.

Deducibilità dei costi per operazioni inesistenti: alcune precisazioni

Evidenziano i giudici di legittimità che, in relazione alla deducibilità dei costi da attività illecita, l’art. 2, comma 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 ha inserito il comma 4 bis dopo il comma 4 della legge 537/1993, in base al quale “nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi .... non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”.

L’art. 8 del Dl. 16 del 2012, sostituendo il comma 4 bis della legge 537/1993, ha, invece poi reso possibile, a determinate condizioni, la deducibilità di costi collegati a reati, con esclusione però dei costi e delle spese “direttamente utilizzati” per il compimento di attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale.

In particolare, il nuovo art. 14, comma 4 bis, legge 537/1993, prevede che:

“Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi.... non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 del codice di procedura penale, ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 del codice di procedura penale, ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”.

Al comma 2 dell’art. 8 del Dl. 16/2012 si prevede inoltre che “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese e/o altri componenti negativi”.

Tanto premesso, la Cassazione rileva quindi che, in tema di imposte sui redditi e con riguardo ad operazioni oggettivamente inesistenti, grava sul contribuente l’onere di provare la fittizietà dei “componenti positivi”, che, ove direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (cfr., Cass., 20 novembre 2013, n. 25967; Cass., sez. 5, 19 dicembre 2019, n. 33915).

Quanto alla disciplina transitoria, peraltro, il comma 3 dell’art. 8 del Dl. 16/2012, stabilisce l’effetto retroattivo delle norme, se più favorevoli al contribuente, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4 bis previgente non si siano resi definitivi, con rilievo anche d’ufficio da parte del giudice (cfr., Cass., 661/2014; Cass., 26461/2014; Cass., 19617/2018).

Pertanto, l’indeducibilità sostanziale dei costi opera ora solo per i costi inerenti l’acquisto di beni e servizi direttamente utilizzati per la commissione di delitti non colposi, non essendo sufficiente, per escluderne la deducibilità, che gli stessi afferiscano genericamente alla commissione del reato doloso, ma essendo necessario che gli stessi costi siano stati sopportati per acquisire beni direttamente utilizzati per la commissione di reati dolosi.

In conclusione, rileva la Cassazione, in tema di “imposte sui redditi”, ai sensi dell’art. 14, comma 4 bis, della L. n. 537 del 1993 (nella formulazione introdotta dall’art. 8, comma 1, del Dl. n. 16 del 2012, conv. in L. n. 44 del 2012), che opera, in ragione del comma 3 della stessa disposizione, quale “jus superveniens” con efficacia retroattiva “in bonam partem”, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una «frode carosello»), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che detti costi siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, ovvero siano relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (cfr., Cass., 6 luglio 2018, n. 17788).

La disciplina dell’art. 8, però, evidenzia la Corte, non riguarda la disciplina Iva, sicché, con riferimento alle fatture passive soggettivamente inesistenti, permane comunque la indetraibilità di tale imposta ove il contribuente, dopo che l’Amministrazione ha offerto la prova che lo stesso “sapeva” dell’accordo simulatorio, o che “avrebbe dovuto saperlo” utilizzando la comune diligenza, non dimostri la sua buona fede e quindi l’estraneità alla frode nel cui ambito tali fatture siano state emesse, oltre alle condotte adottate per verificare l’effettiva attività svolta dalla ditte fornitrici (cfr., Cass., 30 dicembre 2019, n. 34727; Cass., 12 dicembre 2019, n. 32589).

La deducibilità dei costi per le operazioni inesistenti e l’Ordinanza n. 19169 del 2021: le conclusioni

Pertanto, in conclusione, a norma dell’art. 14, comma 4-bis, della L. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta dall’art. 8, comma 1, del Dl. n. 16 del 2012, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni; sempre che naturalmente ricorrano i presupposti di cui all’art. 109 del TUIR (cfr., Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24426/2013; Cass. 13803/2014; Cass. 10167/2012; Cass. 12503/2013; Cass. 25249/2016; Cass. 16528/2018).

Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti è del resto onere dell’Amministrazione, che contesti il diritto del contribuente a portare in detrazione l’IVA pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere (in tal senso anche Corte di Giustizia UE 22 ottobre 2015, causa C-277/14 PPUK; anche 15 luglio 2015, causa C-159/14 Koela -N; 15 luglio 2015, causa C-123/14 Itales; 13 febbraio 2014„ in causa C-18/13 Maks Pen Eood; 21 giugno 2012, in causa C-80/11 e C-142/11, Mahageben et David), con l’uso della diligenza media, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione era iscritta in un’evasione o in una frode.

La dimostrazione può essere del resto data anche attraverso presunzioni semplici, valutati tutti gli elementi indiziari, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto, il contribuente era stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode (cfr., Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873).

Pertanto, in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente.

Nel caso in cui l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava allora sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (cfr., Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24 agosto 2018, n. 21104; Cass., 14 marzo 2018, n. 6291; Cass., 28 marzo 2018, n. 7613).

L’Amministrazione finanziaria non può peraltro limitarsi a dimostrare l’inidoneità operativa del cedente, ma deve dimostrare altresì che il cessionario fosse quantomeno in grado di percepire tale inidoneità (cfr., Cass., 6864/2016).

Certo, rileva la stessa Cassazione, nelle ipotesi “più semplici” (operazioni soggettivamente inesistente di tipo triangolare), detto onere può esaurirsi, “attesa l’immediatezza dei rapporti”, anche nella prova che il soggetto interposto era privo di dotazione personale, mentre in quelle più complesse (ad esempio “frode carosello”, contraddistinta da una catena di passaggi, in cui sono riscontrabili fatturazioni per operazioni sia oggettivamente che soggettivamente inesistenti, con strumentali interposizioni anche di società «filtro») occorre dimostrare gli elementi di fatto caratterizzanti la frode e la consapevolezza di essi da parte del contribuente (cfr., Cass., 30 ottobre 2013, n. 24426; in tema di frodi carosello vedi Cass., 26464/2018, che richiama Cass., 9721/2018 e Cass., 9851/2018).

Nella specie, in conclusione, la sentenza della Commissione Tributaria Regionale si era disallineata dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, avendo ritenuto che la mera regolare tenuta della contabilità, l’emissione delle fatture e la corrispondenza tra le somme relative alle fatture e quelle indicate nei conti correnti, fossero elementi sufficienti a dare la dimostrazione sia dell’effettività delle prestazioni erogate dalle società fornitrici, sia della mancata consapevolezza da parte della contribuente che le società che fornivano le prestazioni erano in realtà delle mere cartiere.

Il giudice d’appello non aveva in particolare tenuto conto in alcun modo che dal processo verbale di constatazione emergeva in modo lampante che la società contribuente aveva avuto rapporti con tutta una serie di società caratterizzate dalla medesima modalità operativa, ossia mere cartiere idonee esclusivamente alla emissione di fatture.

La circostanza che la società contribuente si interfacciasse con un numero assai rilevante di società cartiere, costituiva un elemento che il giudice d’appello avrebbe dovuto tenere in seria considerazione, al fine, quanto meno ai fini Iva, di considerare raggiunta o meno la prova da parte dell’Agenzia delle Entrate della consapevolezza della società in ordine alle operazioni fittizie sottese alle fatture. Prova contraria che non poteva consistere esclusivamente nell’allegazione e nella produzione di contabilità regolare.

Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali giova anche evidenziare quanto segue.

In caso di costi per operazioni soggettivamente inesistenti il giudice di merito deve comunque valutare, ai fini della deducibilità, il rispetto dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cfr Cass. sentenza n. 23314 del 15 ottobre 2013).

Per la dimostrazione della deducibilità del costo del resto non è infatti sufficiente la sola fattura.

Per tale motivo la Suprema Corte, anche alla luce della “nuova” disciplina in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, dove non è in dubbio l’effettività dell’operazione ma l’attendibilità della documentazione, ribadisce l’importanza dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità.

È privo dunque di fondamento giuridico sostenere che, anche se tali operazioni fossero soggettivamente inesistenti, comunque ciò che rileva ai fini tributari è soltanto la oggettiva inesistenza.

Sul piano penale, infatti, l’art. 1 del Dlgs. n. 74/2000 ricomprende nella nozione di operazioni inesistenti non solo le operazioni “oggettivamente” inesistenti, ma anche quelle “soggettivamente” inesistenti, laddove definisce le fatture per operazioni inesistenti come quelle fatture emesse “a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi ...”.

In tale contesto, pertanto, la regola della indeducibilità dei costi da reato può essere riconducibile anche a ragioni di carattere più marcatamente tecnico ed ordinarie, apprezzabili sul piano strettamente fiscale.

Occorre allora domandarsi se i costi sostenuti per porre in essere atti, fatti o attività costituenti reato possano essere considerati inerenti all’attività di impresa, che, secondo le ordinarie regole, genera reddito imponibile.

La condotta penale e, più in generale, illecita, potrebbe infatti spezzare quel rapporto di causa-effetto che, ai fini del riconoscimento del requisito dell’inerenza e quindi della deducibilità, deve intercorrere fra una operazione che ha generato costi e l’attività o l’oggetto propri dell’impresa.

Proprio il riferimento al principio di inerenza potrebbe dunque permettere di giustificare la regola dell’indeducibilità dei costi.

Lo stesso principio di concorrenza del reddito tassabile affermato dall’art. 14 della L. 537/93 per i componenti positivi (illeciti), almeno nella prima versione della norma, non era stato esteso al lato dei componenti negativi del reddito.

L’art. 2, comma 8, della L. 27 dicembre 2002, n. 289, come visto, aveva infatti a suo tempo sancito tout court la regola della indeducibilità dei costi e delle spese connessi a fatti che costituiscono reato.

La previsione del comma 4-bis dell’art. 14 della L. 537/93 introduce(va) pertanto un’eccezione al generale principio di determinazione del reddito come somma algebrica di costi e ricavi e poteva essere considerata come una sorta di “sanzione”, per così dire, “indiretta”, volta a colpire coloro che si rendono responsabili di reati.

Con il Dl. 2 marzo 2012, n. 16 il Legislatore, come detto, è però nuovamente intervenuto sulla normativa operante in materia di indeducibilità dei costi da reato, riformando il comma 4-bis dell’art. 14 della L. n. 537/1993.

In particolare, l’area di indeducibilità dei costi da reato è stata notevolmente ristretta, in quanto la disciplina si riferisce non più ad ogni componente negativo di reddito genericamente riconducibile a una condotta penalmente rilevante, ma soltanto ai costi e le spese afferenti a beni e servizi direttamente utilizzati per commettere delitti non colposi.

Mentre dunque, in presenza di attività completamente illecite, non emergono particolari profili di criticità nell’individuazione dei costi indeducibili, atteso che la totalità degli elementi negativi è sottratta alla determinazione della base imponibile ai fini delle imposte sui redditi, maggiori problematiche sorgono, in base alla nuova formulazione della norma, in presenza di contribuenti che – nell’ambito di un’attività d’impresa o professionale lecita – commettono un illecito in relazione al quale occorre procedere all’individuazione dei costi da reato da recuperare a tassazione.

Per questo l’Amministrazione Finanziaria sarà chiamata a dimostrare concretamente il collegamento tra i beni acquistati e le prestazioni di servizio ottenute con le attività illecite nell’ambito delle quali sono state utilizzate.

Nella Circolare n. 32/E del 3 agosto 2012 (anche se una tale specifica meriterebbe senz’altro il rango normativo) l’Amministrazione finanziaria ha affermato peraltro che, anche a seguito delle modifiche normative introdotte, l’indeducibilità ex art. 14, comma 4-bis, della L. n. 537/1993 potrà essere estesa, oltre ai costi e alle spese relativi ai beni o alle prestazioni di servizi utilizzati “direttamente” per il compimento del delitto, anche alla quota dei componenti negativi afferenti all’ordinaria attività d’impresa che abbiano avuto comunque un rapporto di strumentalità con la commissione del reato, seppur sostenuti non esclusivamente per il compimento dello stesso, tra cui anche, per esempio, gli interessi passivi, gli accantonamenti, le sopravvenienze passive, gli ammortamenti e le minusvalenze, se correlati al compimento del delitto.

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