99 mila donne non hanno più un lavoro da dicembre 2020: perché e come evitarlo?

Rosy D’Elia - Leggi e prassi

Perché 99 mila donne non hanno più un lavoro da dicembre 2020? E come evitare altri cali vertiginosi dell'occupazione femminile? La risposta alle due domande ha un elemento comune: la necessità di distribuire più equamente il carico di cura all'interno delle famiglie. Dalla gender tax al potenziamento degli asili nido: alcune possibili strategie.

99 mila donne non hanno più un lavoro da dicembre 2020: perché e come evitarlo?

Secondo i dati sull’occupazione registrati dall’Istat, dallo scorso dicembre 101 mila persone non hanno più un lavoro. Ma non è questo, o almeno non solo, il dato più sconvolgente: le donne sono 99 mila.

A un primo sguardo, sorge il dubbio o forse la speranza che nel report redatto dall’Istituto Nazionale di Statistica ci sia un errore di battitura. Ma non è così.

Il calo vertiginoso dell’occupazione femminile non solo è possibile, ma è anche la manifestazione concreta e tangibile di un fatto consolidato: la distribuzione del carico di cura all’interno delle famiglia pesa soprattutto sulle donne.

L’evento straordinario dell’emergenza coronavirus fa emergere l’ormai ordinario divario di genere che caratterizza il mercato del lavoro.

Perché 99 mila donne non hanno più un lavoro da dicembre 2020?

Quando appare evidente che non ci sono errori nel report Istat, i dati fotografano la situazione attuale, sono due le domande che sorgono:

  • perché 99 mila donne non hanno più un lavoro da dicembre 2020?
  • come evitare altri cali vertiginosi dell’occupazione femminile?

Cause e soluzioni hanno un punto di partenza comune: prendersi cura, dei bambini, degli anziani, della casa, è un dovere delle donne principalmente.

E non solo perché questo è il ruolo che la società, la cultura, la tradizione gli ha sempre affidato, ma anche perché spesso conviene: gli uomini anche a parità di posizione guadagnano di più.

L’Italia è al 76esimo posto su 153 paesi analizzati per parità retributiva, secondo i dati del Global Gender Gap Report 2020. È anche questo il dato che porta a una differenza occupazionale del 17,9%, stando all’ultimo bilancio di genere del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Secondo i dati Eurostat elaborati da Openpolis, nel 2019 il 15,6% delle donne risultava inattivo per responsabilità di cura. Un primato in Europa per il nostro paese.

D’altronde nell’audizione presso la Commissione pubblico e privato alla Camera dei deputati del 26 febbraio 2020, l’Istat segnalava:

“L’11,1% delle donne che ha avuto almeno un figlio nella vita non ha mai lavorato per prendersi cura dei figli, un valore decisamente superiore alla media europea (3,7%). Nel Mezzogiorno si arriva a una donna su cinque In questa stessa area del Paese si registra anche la quota più alta di donne che dichiarano di non lavorare anche per altri motivi (12,1% rispetto al 6,3% della media italiana e al 4,2% della media europea)”.

In questo scenario l’emergenza coronavirus ha imposto tutte le restrizioni, che hanno avuto un forte impatto sulla conciliazione vita-lavoro proprio per le donne. Un esempio su tutti? La chiusura delle scuole e la necessità di prendersi cura costantemente dei figli.

99 mila donne non hanno più un lavoro da dicembre 2020: la gender tax per arginare il calo dell’occupazione

Per tutte queste ragioni, secondo l’economista professore dell’European University Institute Andrea Ichino servirebbe una terapia d’urto. La sua proposta di una gender tax ha ormai 15 anni, ma nasce dell’osservazione delle stesse dinamiche che ancora oggi frenano l’ingresso o la permanenza nel mercato del lavoro.

Dalla consapevolezza che la distribuzione del carico di lavoro familiare risulta ancora nettamente squilibrata all’interno delle famiglie nasce l’idea, formulata insieme ad Alberto Alesina della Harvard University, di una tassazione differenziata per genere che preveda un’aliquota sul lavoro più favorevole per le donne.

Proporre come strategia una pressione fiscale più bassa sul lavoro delle donne nasce dalla teoria secondo la quale per un sistema che funzioni bisognerebbe prevedere un’aliquota più alta per i beni meno elastici, come sono quelli di prima necessità, e più bassa per quelli più elastici, i beni di lusso.

Applicando questa regola al lavoro dell’uomo e della donna, il primo diventa un bene di prima necessità da tassare in maniera più pesante perché meno esposto a variazioni e il secondo un bene di lusso da tassare in maniera più favorevole per stimolarne il consumo.

In altre parole, potrebbe essere utile forzare la mano e rendere più conveniente per l’economia familiare il lavoro della donna: l’unico modo per andare verso una distribuzione di carichi di cura più equa.

Intervistato da Informazione Fiscale lo scorso 19 novembre, l’economista ha sottolineato:

“Il problema della parità di genere non riguarda soltanto il far sì che le donne lavorino perché per esempio la città in cui insegno, Bologna, è una città con una partecipazione al lavoro delle donne altissimo, però se andiamo a vedere i redditi di donne e uomini, le donne lavorano tantissimo a Bologna ma guadagnano molto di meno degli uomini e in generale fanno meno carriera.

Perché questo? Bologna è una città con tantissimi asili nido e quindi è più facile per entrambi i genitori lavorare, però chi è che alle 4 molla tutto per andare a prendere i bambini all’asilo? Finché saranno le donne a essere coloro che mollano, sarà più difficile per loro fare carriera”.

99 mila donne non hanno più un lavoro da dicembre 2020: gender tax come possibile sperimentazione

Anche Elsa Fornero professoressa di Economia all’Università degli Studi di Torino ed ex Ministra del Lavoro e delle Politiche sociali con delega alle Pari Opportunità è convinta che la strategia per portare e tenere le donne del mercato del lavoro debba basarsi su una spinta esterna.

“Devo dire che quando ho sentito la proposta dei colleghi Andrea Ichino e Alberto Alesina non era convinta. E non ero convinta per la solita questione del fatto che noi non abbiamo bisogno di trattamenti differenziati, non abbiamo bisogno di essere messi dove qualcuno con benevolenza ci tratta in maniera privilegiata, noi abbiamo bisogno di poter essere messe sullo stesso terreno di gioco.

Ma se quel terreno resta inaccessibile per troppo tempo allora, concorda Elsa Fornero, c’è bisogno di una “sperimentazione”. E una formula può essere proprio la gender tax.

Le strategie per evitare nuovi cali dell’occupazione femminile: le proposte di Carlo Cottarelli

Come hanno sottolineato gli esperti coinvolti nel ciclo di approfondimenti sul tema curato dalla redazione di Informazione Fiscale, dalle criticità costituzionali al legame con una concetto di famiglia troppo ancorato agli schemi tradizionali, non mancano i limiti nella proposta di una tassazione differenziata per genere.

Ma non è di certo l’unica strada che si può percorrere. Carlo Cottarelli, Direttore dell’Osservatorio conti pubblici italiani ed ex direttore del dipartimento Affari Fiscali del Fondo Monetario Internazionale, propone una strategia alternativa che permetterebbe di aggirare anche l’ostacolo dell’incostituzionalità: una tassazione favorevole garantita in base al genere entrerebbe in conflitto con il principio di uguaglianza.

Mentre si potrebbe sicuramente intervenire sul secondo coniuge che entra nel mondo del lavoro, che nella maggior parte dei casi è donna.

“Si può fare una cosa molto semplice: tassare di meno il secondo coniuge che entra nel mondo del lavoro. Questa è una cosa che avevamo studiato anche quando ero capo del dipartimento di Finanza Pubblica del Fondo Monetario Internazionale sulla base dei lavori econometrici che facevano vedere che l’elasticità nell’offerta di lavoro, noi economisti diciamo offerta di lavoro quando le persone si offrono per lavorare, per tagli di tasse sugli uomini era un quinto di quello delle tasse sulle donne il che voleva dire che facendo un’operazione neutrale in cui si aumentavano un po’ le tasse sul primo coniuge che lavorava si riducevano le tasse sul secondo e si aveva un aumento netto dell’occupazione molto forte”.

Ma, in ogni caso, non basterebbe: c’è un altro aspetto da considerare per Carlo Cottarelli: la mancanza degli asili nido.

Ad oggi abbiamo una copertura sul territorio nazionale, con differenze di distribuzione, pari al 25,5%, l’Unione Europea raccomanda di raggiungere almeno il 33%.

Ed è d’accordo anche Tania Stefanutto, commercialista e revisore contabile che ha curato uno studio sul tema partendo proprio dalla proposta di Andrea Ichino e Albero Alesina, intervenire sulla tassazione non basta. Tra gli interventi prioritari c’è sicuramente anche il potenziamento del sistema di welfare.

“Non si tratta semplicemente di piccoli premi. Si tratta di aver la possibilità di un corollario di tutto ciò che sono spese legate al mantenimento e al benessere della famiglia che sostanzialmente sono sostenute dal datore di lavoro per il quale sono un costo, mentre per il soggetto che le riceve sono benefit esentasse”.

Recovery Plan e riforma Irpef: c’è spazio per intervenire sull’occupazione femminile?

In teoria gli strumenti per mettere in atto delle sperimentazioni ci sono, in pratica gli ultimi dati Istat dimostrano l’inefficacia delle strategie adottate fino ad ora.

E anche se il clima politico di questi giorni non lascia intravedere scenari nitidi, le occasioni per mettere in atto una terapia d’urto ci saranno di certo.

In programma c’è la riforma Irpef e la definizione del Recovery Plan, nella versione attuale incentivare l’occupazione femminile è uno dei pilastri e, seppure con obiettivi troppo ambiziosi per le risorse stanziate, si fa riferimento anche a un intervento sugli asili nido.

Ma ad oggi, secondo Elsa Fornero, abbiamo ancora un programma a “pezzi e bocconi”.

Definire nel dettaglio e aggiustare il tiro sul Recovery Plan d’altronde è una delle sfide che dovrà affrontare il nuovo governo. E solo allora potremo verificare se ancora una volta si metterà in atto un piano debole fatto, come sottolinea Andrea Ichino, solo per poter dire “abbiamo dato un aiuto alle donne”.

Perché la verità, secondo l’economista, è che come società non vogliamo davvero la parità tra uomini e donne.

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