Convenzioni internazionali e credito per imposte pagate all’estero

La Corte di Cassazione si è recentemente espressa in tema di Convenzioni internazionali e riconoscimento del credito per le imposte pagate all'estero. In caso di attività lavorativa all'estero, la potestà impositiva spetta allo Stato di residenza solo se coincidente con quello in cui il lavoro viene esercitato

Convenzioni internazionali e credito per imposte pagate all'estero

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 26319 del 2023, si è espressa in tema di Convenzioni internazionali e riconoscimento del credito per le imposte pagate all’estero.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate ricorreva per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale, che, riformando la sentenza di primo grado, aveva riconosciuto al contribuente il credito di imposta relativo a reddito da lavoro dipendente percepito all’estero (Kazakhistan) nell’anno 2010, con imposta divenuta definitiva nel gennaio 2011, ma esposto dal contribuente solo nella dichiarazione Modello Unico 730/2013, relativo ad anno d’imposta 2012.

La Commissione Tributaria Provinciale aveva rigettato il ricorso del contribuente avverso la cartella di pagamento Irpef 2012, in ragione di quanto statuito dall’art. 165 Tuir, comma 8, che nega il diritto alla detrazione delle imposte pagate all’estero in caso di violazione del termine di cui all’art. 165, comma 4.

Convenzioni internazionali e credito per imposte pagate all’estero: il caso di specie

I giudici di primo grado avevano in particolare affermato che “il contribuente avrebbe potuto richiedere il rimborso emendando con una dichiarazione integrativa l’errore, ma tale rimborso avrebbe dovuto essere richiesto sempre per l’anno d’imposta 2010 e non 2012”.

Avverso tale sentenza il contribuente proponeva quindi appello dinanzi alla CTR, la quale, riformando la decisione dei primi giudici, statuiva che: “il legislatore ha espunto dal panorama normativo il vincolo della decadenza (che era rappresentato dal termine per la dichiarazione dell’anno immediatamente successivo) con la conseguenza che, avendo il contribuente rispettato il periodo di competenza previsto dall’art. 165 TUIR per il quale la detrazione deve essere calcolata (e non più richiesta) nella dichiarazione relativa al periodo cui appartiene il reddito prodotto all’estero al quale si riferisce l’imposta a condizione che il pagamento avvenga prima della sua presentazione, l’unico limite temporale che rimane è quello previsto dall’art. 2946 c.c. della prescrizione decennale che, nel caso di specie, non risulta ancora compiuto”.

L’Amministrazione finanziaria proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo e ribadendo che il giudice d’appello aveva errato nell’ammettere la detraibilità del credito d’imposta per redditi tassati all’estero, maturato e divenuto definitivo anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione fiscale relativa all’anno di competenza (2010), ed esposto soltanto nella dichiarazione fiscale inerente ad un’annualità successiva (2012).

Secondo la Suprema Corte la censura era infondata.

Evidenziano i giudici di legittimità che il nostro sistema tributario, così come le Convenzioni Internazionali, prevedono una serie di disposizioni volte ad evitare la doppia imposizione dei redditi percepiti all’estero.

E tra i correttivi promossi da parte dei singoli Stati a favore dei propri residenti, vi è l’applicazione del credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero.

Il riconoscimento di questo credito, in Italia, è legato alla possibilità di soddisfare i requisiti indicati all’interno dell’art. 165 del TUIR, laddove, nello specifico, il comma 4 stabilisce la regola generale secondo cui la detrazione deve essere calcolata nella dichiarazione relativa al periodo a cui appartiene il reddito prodotto all’estero al quale si riferisce l’imposta, a condizione che il pagamento a titolo definitivo avvenga prima della sua presentazione.

Nell’ipotesi in cui il pagamento si verifichi successivamente alla presentazione della dichiarazione relativa al periodo in cui il reddito estero ha concorso alla formazione dell’imponibile in Italia, si procede poi, ex comma 7 dell’art. 165 Tuir, ad una nuova liquidazione dell’imposta dovuta per tale periodo.

In tal caso, il credito spettante dovrà essere richiesto in detrazione nella prima dichiarazione utile rispetto al momento in cui si renderà definitiva l’imposizione all’estero, fermo restando che la quota d’imposta italiana e l’imposta netta dovuta, rilevanti ai fini del computo della detrazione, saranno quelle relative al periodo d’imposta in cui il reddito estero ha concorso alla formazione del reddito complessivo.

Il comma 8 dell’art. 165 nega infine il diritto alla detrazione delle imposte pagate all’estero in caso di omessa presentazione della dichiarazione, o di omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero.

Pertanto, ricostruito così il disposto della norma, conclude la Corte, in base alla normativa nazionale, il contribuente non può fruire del credito di cui all’art. 165 Tuir qualora la dichiarazione relativa all’annualità oggetto di controllo sia omessa, o il reddito estero non sia stato dichiarato, laddove, dal combinato disposto dell’art. 2, comma 7, Dpr. n. 322 del 1998, e del comma 8 dell’art. 165 del Tuir appare preclusa la detrazione delle imposte pagate all’estero nel caso di dichiarazioni presentate con ritardo superiore a novanta giorni, dal momento che queste ultime sono da ritenersi omesse, benché costituiscano titolo per la riscossione degli imponibili in esse indicati. Sul piano internazionale, tuttavia, aggiunge la Cassazione, il Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni non prevede alcun adempimento formale per beneficiare della detrazione.

Convenzioni internazionali e credito per imposte pagate all’estero: le conclusioni della Cassazione

Venendo quindi al caso in giudizio, la Corte ricorda che la Convenzione tra Italia e il governo della Repubblica del Kazakhistan - luogo in cui il contribuente aveva svolto la propria attività all’estero - stipulata il 22 settembre 1994 e ratificata e resa esecutiva con legge n. 76/1996, al fine di evitare le doppie imposizioni e prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito, prevede, all’art. 15, che “i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato”.

L’art. 23 del Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni stabilisce del resto che il credito di imposta è riconosciuto “se un residente di uno Stato contraente possiede redditi (...) che, in conformità alle disposizioni della presente Convenzione, sono imponibili nell’altro Stato contrante”.

Da ciò consegue che lo Stato di residenza è tenuto a riconoscere il credito anche nei casi in cui un determinato reddito, pur essendo stato assoggettato ad imposta all’estero, non sia considerato prodotto all’estero in base alla normativa interna.

In materia la Cassazione ha peraltro affermato che la Convenzione stipulata tra gli Stati, al pari delle altre norme internazionali pattizie, riveste carattere di specialità rispetto alle corrispondenti norme nazionali e quindi prevale su queste ultime, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti, tra l’altro, dagli obblighi internazionali sanciti dall’art. 117, primo comma, Cost. (Cfr., Cass. nn. 1138 del 2009, 2912 del 2015, 14474 e 23984 del 2016; Cass. n. 9725 del 2021).

In particolare, è stato affermato che «Le convenzioni bilaterali in materia di doppia imposizione hanno la funzione di dettare norme internazionali di conflitto al fine di eliminare la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali, che si verifica allorché una stessa situazione di fatto economicamente rilevante determina la nascita in capo al medesimo soggetto di due obbligazioni tributarie in relazione a imposte dello stesso tipo previste dalla legislazione di due Paesi diversi, con conseguente ostacolo all’attività economica e di investimento internazionale. Tale scopo viene perseguito o mediante l’attribuzione del potere d’imposizione fiscale ad uno Stato contraente e, corrispondentemente, con la rinuncia all’esercizio di tale potere da parte dell’altro Stato, oppure viene prevista una potestà impositiva concorrente dei due Stati, con il ricorso allo strumento del credito d’imposta per evitare la doppia imposizione» (Cfr., Cass., sentenza n. 24112 del 2017; Cass. n. 9725 del 2021).

Ciò posto, conclude la Corte, l’art. 15 della Convenzione conclusa tra Italia e Repubblica del Kazakhistan è chiaro nell’ancorare la potestà impositiva allo Stato di residenza solo se coincidente con quello in cui il lavoro viene esercitato. La disposizione prevede infatti che nel caso in cui l’attività sia svolta nell’altro Stato contraente - ovvero quello in cui il contribuente non ha residenza - “le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato”.

Nella fattispecie in esame, pertanto, essendo pacifico che il contribuente avesse la propria residenza nello Stato italiano e non essendo contestati i requisiti previsti dall’art. 15 a), b) e c) dalle Convenzione Italia e Repubblica del Kazakhistan, egli aveva diritto alla detrazione dell’imposta indipendentemente dall’anno in cui aveva esposto il credito d’imposta.

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