Se non ci pensa l’Ufficio, spetta al giudice il riconoscimento forfetario dei costi sui ricavi evasi

Emiliano Marvulli - Imposte

Nel caso in cui l'Ufficio dell'Agenzia delle Entrate non quantifichi i costi sostenuti per la produzione del reddito, la stima spetta al giudice. Lo chiarisce la Corte di Cassazione: si deve fare riferimento alle medie elaborate dall'Amministrazione finanziaria per il settore di riferimento

Se non ci pensa l'Ufficio, spetta al giudice il riconoscimento forfetario dei costi sui ricavi evasi

In materia di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo "puro" mentre, in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo, è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili.

Qualora detti costi non siano stati riconosciuti dall’Amministrazione finanziaria, spetta al giudice di merito l’accertamento del quantum dei costi sostenuti per la produzione del reddito, quantificandoli in via presuntiva, anche con riferimento alle "medie" elaborate dall’amministrazione finanziaria per il settore di riferimento, o, se del caso, anche a mezzo di CTU.

Questo il contenuto dell’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 2344 del 24 gennaio 2024.

Accertamento: senza individuazione da parte dell’Ufficio, spetta al giudice il riconoscimento forfettario dei costi sui ricavi evasi

Il procedimento attiene a una causa relativa all’impugnazione dell’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate, con il quale veniva richiesto il pagamento di maggiori imposte (Ires, Iva e Irap) per omessa fatturazione di ricavi per la vendita di autovetture.

Il ricorso è giunto sin dinanzi alla CTR che, confermando la pronuncia di prime cure, ha respinto il ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria. A parere del giudice d’appello, la Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello rilevando che nell’accertamento in rettifica l’Amministrazione doveva tener conto delle voci di costi effettivamente sostenute e, nel caso di specie, delle spese affrontate dal rivenditore di automobili per l’acquisto delle autovetture da vendere.

Avverso tale decisione l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 39, primo comma, lett. d), del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54, secondo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972, nonché dell’art. 109, commi quarto e quinto, TUIR.

A parere della ricorrente la sentenza impugnata aveva erroneamente affermato che nell’accertamento in esame l’Ufficio dovesse senz’altro ed automaticamente riconoscere a controparte maggiori costi in relazione ai maggiori ricavi accertati.

Nel caso di specie, l’evasione era stata realizzata alterando le rimanenze (facendo cioè apparire in magazzino ciò che era stato venduto in nero), ovvero sottofatturando le vendite, ma sempre sulla base di regolari acquisti già contabilizzati, essendovi sul punto anche le dichiarazioni della stessa società che aveva ammesso che le autovetture erano state regolarmente acquistate e fatturate ai clienti, ma con fattura di vendita inferiore al finanziamento richiesto.

La Suprema Corte, ritenendo infondato il motivo, ha respinto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza impugnata. In premessa la Corte di cassazione ha ricordato che, in tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo "puro", ex art. 39, comma 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario (così Cass., 25 febbraio 2022, n. 6304).

Tuttavia va richiamato il contenuto della sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 2023 che, nell’interpretare l’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, in tema di accertamenti bancari, ha affermato che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi occulti, scaturenti da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore può sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, eccepire l’incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati.

Come precisato dalla stessa Cassazione, la decisione della Corte Costituzionale comporta il superamento di quella giurisprudenza costante, in materia di prova contraria incombente al contribuente per vincere la presunzione relativa di cui al citato art. 32 D.P.R. 600 del 1973, secondo cui è onere del contribuente dimostrare la sussistenza di specifici costi e oneri deducibili, fondata su concreti elementi di prova, avvicinando il riconoscimento della detrazione dei costi, in relazione ai prelevamenti non giustificati, al regime forfettario proprio dell’induttivo puro.

Qualora detti costi non siano stati riconosciuti dall’Amministrazione finanziaria, va demandato al giudice di merito l’accertamento del quantum dei costi sostenuti per la produzione del reddito, quantificandoli in via presuntiva, anche con riferimento alle "medie" elaborate dall’amministrazione finanziaria per il settore di riferimento, o, se del caso, anche a mezzo di CTU.

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