Legittimazione del commissario liquidatore e profili fiscali della cessione dei crediti della procedura concorsuale

Legittimazione attiva del commissario liquidatore e circolazione dei crediti delle procedure concorsuali: valida ed efficace è la cessione del credito Ires operata dal commissario liquidatore di una società sottoposta a liquidazione coatta amministrativa prima della cessazione della procedura, anche se il credito stesso è divenuto certo, liquido ed esigibile solo dopo l'archiviazione della procedura, anche successivamente alla cancellazione della società.

Legittimazione del commissario liquidatore e profili fiscali della cessione dei crediti della procedura concorsuale

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la Sentenza numero 2608 del 04 febbraio 2021, ha risolto le incertezze in tema di legittimazione attiva del commissario liquidatore e cessione di credito verso il Fisco, affermando che, in tema di circolazione dei crediti delle procedure concorsuali, posto che il credito Ires da eccedenza d’imposta versata a titolo di ritenuta d’acconto nasce in esito e per l’effetto del compimento delle attività di liquidazione, di modo che la dichiarazione concernente il maxiperiodo concorsuale comporta soltanto la rilevazione di un credito già sorto, è valida ed efficace la cessione di quel credito operata dal commissario liquidatore di una società sottoposta a liquidazione coatta amministrativa antecedentemente alla cessazione della procedura, anche se il credito stesso è divenuto certo, liquido ed esigibile solo successivamente alla archiviazione della procedura, anche successivamente alla cancellazione della società.

Nel caso di specie, la società contribuente (un istituto finanziario) aveva chiesto il rimborso del credito a titolo di Ires, maturato in relazione al periodo d’imposta 19 giugno 1987/30 novembre 2007 da una società in liquidazione coatta amministrativa, e oggetto di un contratto stipulato, nel 2010, dal commissario liquidatore, benché la procedura di liquidazione coatta amministrativa si fosse già chiusa con decreto del Tribunale del 28 gennaio 2008 (e la società fosse stata anche cancellata dal registro delle imprese il successivo 18 aprile).

Legittimazione del commissario liquidatore e cessione dei crediti della procedura concorsuale: i fatti della Sentenza numero 2608 del 2021

La società impugnava il conseguente silenzio-rifiuto e l’Agenzia delle Entrate, nel costituirsi dinanzi al giudice di primo grado, ne eccepiva il difetto di legittimazione sostanziale, osservando che questa aveva acquistato il credito quando ormai il commissario liquidatore non poteva più cederlo, perché era cessato dalla carica, in esito alla chiusura della procedura.

La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso, con sentenza poi confermata anche dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale osservava che la dichiarazione dei redditi con l’eventuale indicazione del credito verso l’Erario va fatta entro i sette mesi successivi alla chiusura della procedura di liquidazione coatta amministrativa; il che comportava per legge una prorogatio dei poteri del commissario liquidatore.

E del resto, rilevavano i giudici di appello, prima della chiusura della procedura era anche impossibile determinare con esattezza il credito.

E dunque, il commissario liquidatore, come era legittimato, dopo la chiusura della procedura, a presentare la dichiarazione dei redditi relativa al maxiperiodo concorsuale, così era anche legittimato a cedere il credito, che pur sempre emergeva da tale dichiarazione.

Senz’altro privo di legittimazione sarebbe stato, invece, il legale rappresentante della società tornata in bonis, anche perché la cessionaria aveva pagato il corrispettivo della cessione alla procedura, e non già alla società in bonis.

Contro tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, e la Sez. Tributaria della Corte, con Ordinanza 28 maggio 2020, n. 10129, rilevando un contrasto concernente la valutazione del rapporto tra il sistema della tassazione in acconto fissato dall’art. 26, comma 2, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e la tassazione del reddito delle procedure concorsuali liquidatorie, ed individuando una questione di massima di particolare importanza con riferimento alla circolazione dei crediti delle procedure concorsuali, chiedeva al Primo Presidente di valutare la rimessione del giudizio alla cognizione delle Sezioni unite.

Alcuni quesiti sulla legittimazione del commissario liquidatore e il rimborso del credito Ires

Con l’ordinanza interlocutoria si ponevano dunque in particolare i seguenti quesiti:

  • a) se sussista la legittimazione del commissario liquidatore di una procedura di liquidazione coatta amministrativa a chiedere il rimborso del credito Ires da eccedenza di imposta versata a titolo di acconto, liquidato all’atto della presentazione della dichiarazione dei redditi, successivamente all’archiviazione della procedura;
  • b) se sussista la legittimazione del commissario liquidatore di una procedura di liquidazione coatta amministrativa a chiedere il rimborso del credito Ires da eccedenza di imposta versata a titolo di acconto, il cui importo sia stato acquisito dalla procedura cedente prima della predisposizione del piano di riparto finale, ma sia divenuto certo, liquido ed esigibile solo successivamente all’archiviazione della procedura per effetto della dichiarazione presentata, anche successivamente alla suddetta archiviazione e alla cancellazione della società.

Le Sezioni Unite, nel dare risposta ai quesiti sopra evidenziati, rilevano che i sostituti d’imposta hanno l’obbligo di operare le ritenute d’acconto sugli interessi derivanti da conti correnti e da depositi bancari e postali, anche quando l’impresa a favore della quale sono corrisposti sia sottoposta a liquidazione coatta amministrativa (cfr., Cass. 14 maggio 2007, n. 10974; Cass. 22 settembre 2011, n. 19314; in linea, anche Cass. 7 marzo 2019, n. 6630).

Di norma, però, rileva la Cassazione, il credito da eccedenza è accertato soltanto alla fine della liquidazione: qualora vi sia un residuo attivo imponibile, dall’imposta che risulterà dovuta si devono scomputare gli acconti prelevati dal sostituto nel corso della procedura e versati all’erario, mentre il diritto al rimborso, totale o parziale, delle somme è destinato a manifestarsi nell’ipotesi in cui, in base ai risultati del conto di gestione e del bilancio finale, non siano dovute imposte sui redditi d’impresa o siano dovute imposte per un ammontare inferiore a quello delle ritenute d’acconto effettuate.

Il contrasto col regime delle procedure concorsuali

Tale disciplina, rileva la Corte, rischia tuttavia di entrare in frizione col regime delle procedure concorsuali.

A norma dell’art. 80 del Tuir, infatti, “se l’ammontare complessivo dei crediti..., delle ritenute d’acconto e dei versamenti in acconto di cui ai precedenti articoli è superiore a quello dell’imposta dovuta il contribuente ha diritto, a sua scelta, di computare l’eccedenza in diminuzione dell’imposta relativa al periodo di imposta successivo, di chiederne il rimborso in sede di dichiarazione dei redditi ovvero di utilizzare la stessa in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”.

L’art. 183, comma 2, del Tuir, tuttavia, conforma in maniera particolare il periodo d’imposta, individuando il c.d. maxiperiodo concorsuale, laddove prevede, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, che “il reddito di impresa relativo al periodo compreso tra l’inizio e la chiusura del procedimento concorsuale - di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa - quale che sia la durata di questo ed anche se vi è stato esercizio provvisorio, è costituito dalla differenza tra il residuo attivo e il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento, determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti”.

In relazione a questo periodo il reddito d’impresa risulta dunque dalle dichiarazioni iniziale e finale, che devono essere presentate dal curatore o dal commissario liquidatore (art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 322/98, nel testo applicabile all’epoca dei fatti).

Ma il curatore o il commissario liquidatore presentano la dichiarazione concernente il risultato finale delle operazioni di liquidazione entro i sette mesi successivi alla chiusura del fallimento o alla cessazione della liquidazione.

La tassazione non opera quindi in relazione ai risultati economici della gestione di ciascun periodo d’imposta (come quelli risultanti dall’utile di bilancio rettificato a norma dell’art. 83 del Tuir), ma con riguardo a una grandezza patrimoniale, data, appunto, dalla differenza tra il residuo attivo risultante al termine della procedura e il patrimonio netto all’inizio di essa (cfr., Cass. 28 maggio 2020, n. 10108), che si riferisce a un periodo d’imposta unico.

Non c’è quindi la possibilità per il curatore o il commissario liquidatore di applicare il citato art. 80 del Tuir, perché, non sussistendo i presupposti per la compensazione, non si può computare in diminuzione in un periodo d’imposta successivo l’eccedenza che sia stata accertata.

Gli attriti e gli orientamenti di segno diverso nella giurisprudenza di legittimità

Il conseguente punto di attrito tra la disciplina generale delle ritenute d’acconto e quella particolare dell’imposizione reddituale nelle procedure concorsuali ha pertanto comportato orientamenti di segno diverso nella giurisprudenza di legittimità.

Da un canto v’è la prospettazione (espressa da Cass. 1 luglio 2003, n. 10349), secondo cui in caso di fallimento (e il principio si estende alla liquidazione coatta amministrativa) la dichiarazione concernente il maxiperiodo concorsuale, che presuppone il compimento di tutte le operazioni necessarie alla definizione dei rapporti giuridico-economici facenti capo alla procedura, in mancanza di una espressa previsione di legge che lo vieti e in considerazione del fatto che il legislatore prevede il termine ultimo, ma non quello iniziale per ottemperarvi, è presentata in modo legittimo ed efficace anche prima della chiusura della procedura.

Senz’altro occorre che vi siano o una specifica esigenza della procedura o un oggettivo interesse della massa dei creditori: in tal caso, peraltro, è sufficiente che, da un lato, siano stati definiti tutti i rapporti pendenti, e che, dall’altro, siano noti al curatore -o al commissario liquidatore - tutti gli elementi che compongono il reddito da dichiarare.

D’altronde, si sottolinea, in caso di omissioni o di incompletezze della dichiarazione, l’ufficio finanziario, sulla base dei poteri di accertamento riconosciutigli dalla legge, può sempre controllare la dichiarazione dei redditi finale, presentata dal curatore del fallimento (o dal commissario liquidatore).

D’altro canto v’è poi però la tesi (che si legge in Cass. 18 gennaio 2018, n. 1150), in base alla quale, avvenuta l’estinzione della società per effetto della cancellazione dal registro delle imprese, il diritto al rimborso spettante per l’eventuale eccedenza corrisposta può essere esercitato dai soci pro quota (oppure da ciascun socio per l’intero, applicando i principi fissati da Cass. 21 settembre 2020, n. 19641) e sul rimborso ottenuto si possono soddisfare i creditori rimasti insoddisfatti nella procedura concorsuale.

In definitiva, secondo il primo orientamento, del rimborso da eccedenza fruirebbe la procedura, mediante la dichiarazione anticipata del curatore o del commissario liquidatore. In base all’altro, ne fruirebbero invece i soci (e sulla somma che ne sia oggetto si soddisferebbero i creditori rimasti insoddisfatti) dopo la chiusura della procedura e la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Due fronti, entrambi critici

Ciascuna delle due opzioni, però, si argomenta con l’Ordinanza interlocutoria, presenta aspetti critici:

  • la prima, sia perché la procedura è destinata a rimanere aperta sino all’esecuzione del rimborso, posto che solo all’esito di questo si potrà procedere al rendiconto e al riparto finale, e sia perché è problematica una chiusura anticipata del periodo fiscale rispetto al momento dell’approvazione finale del bilancio finale e del conto di gestione;
  • la seconda, in quanto i singoli creditori sarebbero onerati di agire sul patrimonio dei soci della società già fallita o in liquidazione amministrativa, con ulteriori oneri a carico degli originari beneficiari del rimborso, ed eventualmente in via surrogatoria nei confronti dei supposti titolari, successori nella titolarità del credito.

La Sezione tributaria dubita della conformità al principio costituzionale della capacità contributiva posto dall’art. 53 Cost. di un sistema fiscale che impedisca il rimborso dell’imposta versata in eccedenza a titolo di acconto in assenza di un debito d’imposta e dà conto allora dell’ulteriore soluzione, invalsa nella prassi, di cedere in corso di procedura il credito maturando, laddove, in tal caso, il ricavo netto della cessione del credito formatosi in costanza di procedura e di spettanza della massa dei creditori è incamerato dal commissario liquidatore (come anche dal curatore del fallimento) a beneficio della massa quale credito futuro. Sicché gli atti di cessione del credito, una volta divenuto certo il credito ceduto, sarebbero meramente esecutivi, ed assimilabili ad un’attività materiale.

Nel caso in esame, del resto, l’Agenzia delle Entrate sosteneva che l’atto di cessione di credito, effettuato da un soggetto privo di poteri rappresentativi perché decaduto dalla carica, nonché da una società ormai estinta perché cancellata dal registro delle imprese, fosse irrimediabilmente nullo, ma non contestava, tuttavia, che, nel corso della procedura, la cessione del credito vi fosse stata e che il relativo prezzo fosse stato corrisposto al commissario liquidatore.

Per la soluzione dei quesiti, pertanto, secondo le Sezioni Unite, la questione concernente la cessione avvenuta in corso di procedura si rivelava dirimente, laddove comunque il credito in oggetto poteva essere oggetto di cessione nel corso della procedura.

L’art. 106 L.fall., nel testo sostituito dall’art. 93, comma 1, del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, a decorrere dal 16 luglio 2006, stabilisce infatti che “il curatore può cedere i crediti, compresi quelli di natura fiscale o futuri, anche se oggetto di contestazione”, con lo scopo proprio di evitare ritardi nella chiusura delle procedure concorsuali, spesso rallentate proprio dai tempi di accertamento e di rimborso dei crediti tributari.

Anche prima della sostituzione del testo dell’art. 106 L.fall., del resto, rileva la Corte, non si dubitava che il curatore (o il liquidatore) potesse cedere un credito tributario futuro.

Ai fini della cessione, non rileva peraltro che il credito sia esposto in una dichiarazione, la quale non ha natura negoziale o comunque dispositiva, ma è esternazione di scienza o di giudizio (cfr., Cass., sez. un., 30 giugno 2016, n. 13378, che ne ha per conseguenza ammesso l’emendabilità per errori o omissioni).

Quel che importa è che esso scaturisca da uno specifico rapporto tributario e che in quanto tale sia qualificabile come credito futuro (cfr., Cass. 24 giugno 2015, n. 13027; Cass. 24 ottobre 2019, n. 27278), o che derivi da rapporti tra cedente e ceduto anche soltanto eventuali al momento della cessione (tra varie, Cass. 11 maggio 1990, n. 4040; 10 dicembre 2018, n. 31896; 28 febbraio 2020, n. 5616).

Le conclusioni della Sentenza numero 2608 del 04 febbraio 2021

Tanto premesso, venendo al caso in esame, quando era stato ceduto, il credito non si poteva dire certo, perché erano in corso le attività di liquidazione dalle quali sarebbe scaturito (anzi, proprio la cessione in questione, che ha prodotto un provento, aveva costituito una di quelle attività). Il credito era divenuto certo e attuale, tuttavia, al termine di quelle operazioni, che avevano individuato la materia imponibile.

Il che era avvenuto, quindi, durante la pendenza della procedura, che, a norma dell’art. 213 L.fall., è destinata a cessare, e a comportare la cancellazione della società che vi sia stata sottoposta, soltanto in esito all’approvazione del bilancio finale di liquidazione, del conto di gestione e dell’ultimo riparto ai creditori, che postulano, tutti, appunto la chiusura delle operazioni di liquidazione.

Nella disciplina del caso concreto, peraltro, alla cessione del credito vantato verso il fisco andavano applicate anche le disposizioni peculiari della contabilità generale dello Stato, laddove, in particolare:

  • a norma dell’art. 69 del R.d. n. 2440/1923, “Le cessioni, le delegazioni, le costituzioni di pegno e gli atti di revoca, rinuncia o modificazione di vincoli devono risultare da atto pubblico o da scrittura privata, autenticata da notaio...”;
  • ai sensi dell’art. 43 -bis del d.P.R. n. 602/73, comma 1, “Le disposizioni degli articoli 69 e 70 del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, si applicano anche alle cessioni dei crediti chiesti a rimborso nella dichiarazione dei redditi”;
  • e a norma dell’art. 1 del d.m. 30 settembre 1997 n. 384, comma 4, “Per essere efficace, l’atto di cessione è notificato all’ufficio delle entrate o al centro di servizio presso il quale è stata presentata la dichiarazione dei redditi del cedente, nonché al concessionario del servizio della riscossione competente in ragione del domicilio fiscale del cedente alla data di cessione del credito”.

Sottolinea del resto la Cassazione che i requisiti formali richiesti non incidono sulla validità del contratto di cessione e sul conseguente rapporto sostanziale tra cedente e cessionario, perché il legislatore non dispone che l’atto sia fatto in un determinato modo, ma solo che la cessione, quando riguardi crediti della pubblica amministrazione, “risulti” da atti muniti di una determinata forma.

A fronte, allora, di una cessione priva dei requisiti formali prescritti, la successiva stipulazione di un atto che, invece, li osservi si traduce in una riproduzione contrattuale, che consente al cessionario di far valere il credito nei confronti del fisco.

La riproduzione, dopo la chiusura del fallimento o la cessazione della procedura di liquidazione coatta amministrativa, della cessione stipulata quando la procedura pendeva, concludono le Sezioni Unite, si atteggia dunque come mero adempimento materiale, trattandosi anzi di un adempimento dovuto, perché per effetto della cessione il credito non fa più parte della sfera giuridica del cedente.

Sicché non era neppure necessario evocare l’ultrattività dei poteri del commissario liquidatore (o del curatore), in quanto l’adempimento in questione era conseguenziale alla dichiarazione che il commissario (o il curatore) deve fare per legge dopo la cessazione della procedura.

Alla luce di tali principi indicati, il ricorso dell’Agenzia delle Entrate era pertanto infondato.

Corte di Cassazione - Sentenza numero 2608 del 4 febbraio 2021
Il testo integrale della sentenza della Corte di Cassazione numero 2608 del 4 febbraio 2021.

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