Il trattamento fiscale della vendita degli arredi dell’abitazione

Gianfranco Antico - Dichiarazione dei redditi

Analisi tecnica e giuridica di un caso pratico relativo alla vendita dei mobili e degli arredi di casa: come qualificare fiscalmente l'operazione e quali imposte occorre pagare in questi casi

Il trattamento fiscale della vendita degli arredi dell'abitazione

Una delle domande che spesso lettrici e lettori di Informazione Fiscale inviano alla nostra redazione riguarda il corretto comportamento da tenere nel caso in cui si vendano degli arredi di casa usati: vanno dichiarati? E se si, quanto si paga sulla vendita?

La vendita di mobili, facenti parte dell’arredo della propria abitazione, non rientra in nessuna delle attività commerciali di cui all’art. 2195 c.c., non potendosi considerare “attività di intermediazione nella circolazione dei beni”, la vendita di oggetti appartenenti al patrimonio personale del venditore.

Recentemente se n’è occupata anche la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10117/2023.

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Vendita di mobili e arredi usati: obblighi fiscali e quanto si paga

Per comprendere quello di cui stiamo parlando analizziamo proprio questo caso, che trae origine da un avviso di accertamento, ai fini Irpef ed Iva, impugnato dal contribuente.

I giudici di prime cure accoglievano parzialmente il ricorso, rideterminando il maggior reddito in 80.632,00 euro, pari alla somma determinata dalle parti in sede di accertamento con adesione, poi non perfezionatosi per omesso versamento delle maggiori imposte dovute.

L’allora CTR accoglieva parzialmente l’appello principale proposto dal contribuente, rideterminando il maggior reddito in 58.000,00 euro, e rigettava l’appello incidentale proposto dall’Agenzia delle Entrate.

Dalla sentenza impugnata si evince che:

  • sebbene la somma di € 58.000,00 fosse stata giustificata dal contribuente, quale provento della cessione di arredi antichi, la stessa andava comunque riqualificata come plusvalenza tassabile ai sensi dell’art.67, comma 1, lett. i) del T.U.n.917/86;
  • i versamenti per complessivi € 22.207,00, invece, avvenuti in quattro tranches, non erano imputabili a reddito, avendo il contribuente provato che si trattava di donazioni di non rilevante valore, elargite dai propri genitori;
  • l’appello incidentale andava rigettato, in quanto il giudice tributario poteva utilizzare, quale elemento di valutazione, le risultanze emerse in sede di accertamento con adesione.

Da qui il ricorso per cassazione, di parte.

L’Agenzia delle Entrate resisteva con controricorso, proponendo ricorso incidentale.

All’impugnazione incidentale il contribuente replicava con controricorso.

Il primo motivo di ricorso del contribuente

Con il primo motivo di ricorso, il contribuente contesta la sentenza, per avere la CTR errato nel modificare la motivazione dell’avviso di accertamento, mutando il titolo dell’originaria pretesa fiscale da reddito da lavoro autonomo a plusvalenza tassabile.

Per gli Ermellini, il motivo è infondato.

Secondo la precedente e consolidata giurisprudenza, il processo tributario non è annoverabile tra quelli di impugnazione - annullamento, ma tra quelli di impugnazione-merito, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, che dell’accertamento dell’ufficio.

Di conseguenza, ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento non per motivi formali (ossia per vizi di forma talmente gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi, e precludere l’esame del merito del rapporto tributario), ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (ex multis Cass. 3.8.2016 n. 16154).

Ne consegue che:

“il principio secondo cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è un giudizio di impugnazione dell’atto, precludendo all’Ufficio finanziario di porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare nel corso del giudizio la motivazione dell’atto, va coordinato con il potere (connaturato all’esercizio stesso della giurisdizione) che ciascun giudice tributario ha, trovandosi in presenza di un’errata indicazione di una categoria reddituale nell’avviso di accertamento, di qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione, a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa, e di pervenire ad una diversa qualificazione giuridica della fonte di produzione della ricchezza, non incidendo tale operazione sugli elementi costitutivi della pretesa fiscale e, più in particolare, sugli elementi fattuali rilevanti ai fini dell’individuazione del presupposto impositivo” (Cass. 13.5.2011 n. 10585)

Nel caso di specie, pertanto, il giudice regionale non ha mutato la motivazione degli avvisi di accertamento

“ma, nel rispetto dei confini segnati dalle parti alla materia del contendere, si è limitato a riqualificare una parte del maggiore reddito determinato dall’Ufficio”

Il secondo motivo di ricorso del contribuente

Con il secondo motivo di ricorso, il contribuente denuncia la pronuncia di secondo grado, per avere la CTR errato nell’applicazione della norma impositiva attraverso la quale era stata riqualificata la fattispecie oggetto della pretesa, che, disciplinando i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente, non poteva includere l’attività posta in essere dal contribuente, consistente in un’unica vendita di arredi del proprio appartamento, peraltro connessa alla vendita dello stesso immobile, “senza che l’Ufficio (che nell’avviso di accertamento aveva considerato la somma ricavata da detta vendita come ricavi non contabilizzati derivanti dal proprio lavoro autonomo di medico)”, peraltro, avesse mai richiesto, la documentazione relativa al loro costo.

Il motivo è fondato nei termini di seguito indicati. La categoria dei redditi diversi è disciplinata dall’art. 67 TUIR

“che rappresenta una norma di chiusura del sistema complessivo di classificazione dei redditi e comprende diverse fattispecie eterogenee, prive di una struttura comune e non riconducibili alle altre categorie reddituali”

Fra i redditi diversi sono elencati quelli derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente (art. 67, comma 1, lett. i).

Osserva la Corte che

“la vendita di mobili, facenti parte dell’arredo della propria abitazione, non rientra in nessuna della attività commerciali di cui all’articolo 2195 c.c. (già richiamato dall’art. 55 TUIR per definire il reddito d’impresa), non potendosi considerare «attività di intermediazione nella circolazione dei beni», la vendita di oggetti appartenenti al patrimonio personale del venditore”

Infatti, l’Ufficio

“non ha dimostrato che si trattasse di mobili acquistati al fine di essere rivenduti, mancando nella specie la prova di quell’intento speculativo che caratterizza l’attività commerciale di vendita, sia pure realizzata in modo occasionale (cfr. in relazione ad un caso opposto, Cass. 20.12.2006 n. 27211), e non potendosi ritenere, pertanto, ricavo soggetto a tassazione il corrispettivo derivante da detta cessione”

Il terzo motivo di ricorso del contribuente

Con il terzo motivo, il contribuente lamenta l’assoggettamento ad IRAP del presunto reddito di € 58.000,00, derivante dalla vendita degli arredi, in quanto, trattandosi di un’attività esercitata in modo occasionale, mancava il presupposto dell’abitualità, previsto dalla disciplina istitutiva della predetta imposta.

L’accoglimento del secondo motivo esonera il Collegio dall’esaminare il terzo motivo, il quale rimane assorbito.

Il primo e secondo motivo di ricorso incidentale dell’Agenzia delle Entrate

Con il primo motivo, le Entrate ritengono nulla la sentenza impugnata, per non avere la CTR rilevato il vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il primo giudice, nell’annullare quella parte dell’atto impositivo che riprendeva a tassazione l’importo di € 138.503,00, pur non avendo il contribuente mai contestato nel ricorso originario detta ripresa.

Con il secondo motivo, la ricorrente incidentale deduce sempre la nullità della sentenza impugnata per non avere la CTR rilevato il vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il primo giudice, nell’accogliere una domanda diversa da quella proposta dal contribuente, avendo ritenuto che dai verbali del procedimento di accertamento con adesione risultassero le circostanze in forza delle quali le movimentazioni bancarie dovevano considerarsi giustificate, mentre il contribuente aveva chiesto di ritenerle giustificate, solo perché ciò risultava dalle conclusioni dell’accertamento con adesione.

Per i giudici di piazza Cavour, entrambi i motivi, che vanno esaminati unitariamente, in quanto connessi, sono infondati.

Dal contenuto del ricorso introduttivo, riportato dall’Agenzia nel testo del ricorso per cassazione, si evince che il contribuente aveva chiesto di dichiarare l’illegittimità, la nullità, l’erroneità e, comunque, l’inefficacia dell’atto di accertamento e rettifica emesso dall’Agenzia delle Entrate di Vimercate per l’anno 2003 e conseguentemente dichiararne l’annullamento, senza alcuna distinzione tra le varie riprese a tassazione.
Al punto d) del ricorso introduttivo, poi, si è soffermato sul fatto che

“l’Agenzia aveva riconosciuto in sede di accertamento con adesione la fondatezza degli elementi probatori da lui addotti, riducendo la pretesa da € 218.286,00 ad € 80.632,00, con ciò implicitamente confermando di avere contestato anche la somma riconosciuta dall’Ufficio come giustificata, non essendo il primo giudice incorso in alcun vizio di ultrapetizione”

Il terzo motivo di ricorso incidentale dell’Agenzia delle entrate

Con il terzo motivo, le Entrate chiedono la nullità della sentenza impugnata, per non essersi la CTR pronunciata sulla doglianza relativa al difetto di motivazione della sentenza di primo grado, laddove faceva mero rinvio alle risultanze dei verbali dell’accertamento con adesione.

Il motivo è infondato

“essendosi la CTR pronunciata sul punto, affermando che il giudice tributario poteva utilizzare, quale elemento di valutazione, tutte le emergenze e valutazioni emerse in sede di accertamento con adesione, ancorché non perfezionatosi tra le parti, e che sulla motivazione della sentenza di primo grado, con riferimento alla giustificazione della somma di € 138.000,00, non erano stati formulati specifici motivi nell’appello incidentale”

Il quarto motivo di ricorso incidentale dell’Agenzia delle entrate

Con il quarto motivo di ricorso, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art.32, del DPR n. 600 del 1973, per avere la CTR erroneamente annullato la ripresa di € 22.207,00, ritenendo i versamenti riconducibili alle elargizioni dei genitori del contribuente.

Per la Corte, il motivo è inammissibile

“in quanto mira, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito, con un accertamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità (Cass. SS.UU. 27.12.2019 n. 34476)”

In conclusione, viene accolto il secondo motivo del ricorso principale, assorbito il terzo, rigettati il primo e il ricorso incidentale.

La sentenza impugnata viene cassata con riferimento al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, decidendo nel merito, viene accolto il ricorso introduttivo della lite.

Brevi note tecniche ed operative

ll particolare caso esaminato dai massimi giudici di legittimità sembra – sulle base della lettura del pronunciamento - che tragga origine da una attività di controllo nei confronti di un medico, sottoposto ad indagini finanziarie, dove dall’esame dei conti correnti venivano contestati una serie di versamenti, fra cui l’importo di 58 mila euro, relativo alla vendita di arredi, valorizzati in atto separatamente alla contestuale cessione dell’immobile.

Tale somma – probabilmente in assenza di giustificazioni – veniva contestata quale provento derivante dal lavoro autonomo di medico e riqualificata dal giudice d’appello come plusvalenza tassabile ai sensi dell’art. 67 del TUIR.

La Corte Suprema ha, quindi, ritenuto non assoggettabile a tassazione il corrispettivo di cessione degli arredi usati, non rientrando in nessuna delle attività commerciali di cui all’art. 2195 c.c., mancando fra l’altro l’intento speculativo che caratterizza un’attività commerciale di vendita e ogni riferimento al costo di acquisto dei beni.

La sentenza in analisi ci consente, altresì, di ricordare che il verbale redatto nell’ambito del procedimento di accertamento per adesione, sottoscritto sia dall’Amministrazione finanziaria che dal contribuente, costituisce un documento probatorio utilizzabile nel giudizio tributario anche in caso di mancato perfezionamento del procedimento, atteso che tale circostanza non fa venir meno la valenza dell’atto quale documento e la sua riconducibilità, in assenza di contestazioni sul punto, alla volontà delle parti che lo hanno sottoscritto, ferma restando la libertà del giudice di valutarne la rilevanza e attendibilità delle circostanze ivi rappresentate.

È questo l’interessante principio che emerge dalla lettura dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 6391/2022. Principi sostanzialmente confermati dalla stessa Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 28977/2022 e n. 37954/2022.

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