Termini per il disconoscimento del credito IVA indicato in dichiarazione

L'omesso esercizio del potere di controllo non determina alcun consolidamento del credito IVA vantato, che può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato. A chiarire gli effetti dell'inerzia dell'Amministrazione finanziaria è la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 21766 del 2021.

Termini per il disconoscimento del credito IVA indicato in dichiarazione

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21766 del 29 luglio 2021, hanno chiarito gli effetti dell’inerzia dell’Amministrazione finanziaria sul credito derivante dal coacervo delle poste detraibili che eccedono l’imposta liquidata, affermando che l’omesso esercizio del potere di controllo non determina alcun consolidamento del credito vantato, che può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato.

Nel caso di specie, la curatela di un fallimento, in relazione all’anno d’imposta 2007, chiedeva, per cessazione dell’attività a norma dell’art. 30, comma 2, del Dpr. 26 ottobre 1972, n. 633, il rimborso di un credito Iva maturato nel 1998, che aveva riportato a nuovo nel corso degli anni.

Corte di Cassazione - Sentenza numero 21766 del 29 luglio 2021
Il testo della Sentenza della Corte di Cassazione numero 21766 del 29 luglio 2021.

Termini per il disconoscimento del credito IVA indicato in dichiarazione: i fatti della sentenza n. 2176/2021

L’Agenzia delle Entrate invitava il curatore a documentare la pretesa, evidenziando che, nelle more, il rimborso si sarebbe dovuto ritenere sospeso.

Il credito veniva però ceduto ad altra società con atto regolarmente notificato all’Agenzia delle Entrate, la quale comunicava alla cessionaria che mai l’aveva riconosciuto, che il rimborso era sospeso e che, anzi, a carico della società fallita cedente risultavano carichi tributari.

Questa comunicazione, intesa come sostanziale diniego di rimborso, veniva impugnata dalla società cessionaria dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, che accoglieva il ricorso ritenendo che il credito, formatosi in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento della cedente, si fosse ormai consolidato perché non contestato tempestivamente dall’Agenzia, la quale era decaduta dal relativo potere di accertamento.

La Commissione Tributaria Regionale respingeva poi l’appello proposto dall’Agenzia, convenendo col giudice di primo grado che il credito si dovesse ritenere ormai consolidato.

Contro tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell’art. 10 del Dlgs. 2 settembre 1997, n. 313 e dell’art. 2697 c.c., e lamentando che, diversamente da quanto sostenuto dal giudice d’appello, i termini decadenziali si applicavano solo alle attività di accertamento d’imposte dovute od evase e, quindi, all’accertamento dei crediti vantati dall’erario, e non già a quello dei suoi debiti, ossia alla contestazione dei crediti vantati dal contribuente.

Aggiungeva inoltre l’Amministrazione che l’omesso deposito della documentazione richiesta a seguito della presentazione dell’istanza di rimborso aveva comunque comportato la proroga del termine per l’accertamento del credito, laddove il mancato deposito dei documenti richiesti, tra i quali la copia dei registri Iva e delle fatture d’acquisto, si era peraltro tradotto nell’inosservanza dell’onere probatorio gravante su chi vanta il credito.

In sostanza, il giudice d’appello aveva quindi sbagliato a riconoscere il diritto al rimborso azionato dalla cessionaria del credito.

Con l’ordinanza interlocutoria di rinvio alla Sezioni Unite, la Sezione Tributaria evidenziava che il tema posto dal ricorso era segnato dal principio di diritto, già affermato dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 5069/16, con la quale era stato stabilito, in relazione alle imposte sui redditi, che, in tema di rimborso d’imposta, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del proprio potere di accertamento (Cfr., Cass. n. 12557/16; n. 2392/18; n. 25464/18; n. 3404/19; n. 7132/19; n. 14044/19).

La Sezione Tributaria sollecitava quindi la verifica della tenuta di tale principio, illustrando le ragioni idonee a sostenerlo e quelle che, invece, ne ostavano all’applicazione e, comunque, chiedeva di precisarne la portata e di chiarire se, benché dettato in tema d’imposte dirette, esso si potesse estendere anche all’Iva, segnalando come, proprio rispetto a tale imposta, fosse maturato un diverso orientamento, fondato sull’art. 57 del Dpr. 29 settembre 1972, n. 633, il primo comma del quale stabilisce che “Gli avvisi relativi alle rettifiche e agli accertamenti previsti nell’art. 54 e nel secondo comma dell’art. 55 devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione. Nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione annuale, se tra la data di notifica della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e la data della loro consegna intercorre un periodo superiore a quindici giorni, il termine di decadenza, relativo agli anni in cui si è formata l’eccedenza detraibile chiesta a rimborso, è differito di un periodo di tempo pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno e la data di consegna”.

Termini per il disconoscimento del credito IVA indicato in dichiarazione: i diversi orientamenti

In particolare, sottolineava la Sezione Tributaria, facendo leva sul differimento, a determinate condizioni, del termine di decadenza nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione annuale, il termine decadenziale ivi previsto sembrava riferirsi anche al controllo dell’Ufficio della pretesa di rimborso (Cass. n. 8460/05; n. 10192/08; n. 17969/13), non operando la decadenza nella sola ipotesi in cui la contestazione del diritto del contribuente al rimborso del credito Iva riportato in dichiarazione non investa la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto (in particolare l’esistenza di un’eccedenza d’imposta in suo favore), ma i presupposti contemplati dai commi 2 e 3 dell’art. 30 del Dpr. n. 633/72 (Cass. n. 194/04; n. 29398/08; n. 8642/09; n. 8810/13; n. 25036/14; n. 16768/16; n. 21665/20).

E comunque, si specificava ancora con l’ordinanza interlocutoria, il differimento contemplato dal secondo periodo del comma 1 dell’art. 57 cit. postulava che il termine di decadenza non fosse già inutilmente decorso (in termini, Cass. n. 6788/09; n. 4616/14; n. 16972/16).

Le Sezioni Unite, rilevano dunque che con l’indicata sentenza n. 5069/16 era stato composto il contrasto giurisprudenziale insorto intorno all’applicabilità al provvedimento di diniego del rimborso d’imposta dei termini decadenziali stabiliti dalla legge per gli avvisi di accertamento, laddove, in precedenza, era maturato un orientamento il quale escludeva che il credito d’imposta esposto in dichiarazione si consolidasse con lo spirare del termine entro il quale l’Amministrazione finanziaria deve provvedere alla liquidazione dell’imposta, o con l’inutile decorso del termine stabilito nell’art. 43 del Dpr. 29 settembre 1973 n. 600 per l’accertamento e la rettifica dei redditi dichiarati (si veda, per tutte, Cass. n. 7899/12).

A quest’orientamento, ricorda la Corte, se n’era poi però contrapposto un altro, secondo il quale l’Amministrazione finanziaria era tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso, salvo diversa espressa previsione normativa, nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica.

Sicché, in tal caso, si sosteneva, decorso il termine senza l’adozione di alcun provvedimento, il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizzava nell’an e nel quantum, e il contribuente poteva pertanto agire in giudizio per la tutela del proprio credito nell’ordinario termine di prescrizione dei diritti, rimanendo preclusa all’Amministrazione finanziaria ogni contestazione dei fatti che avevano originato la pretesa di rimborso, salve le eccezioni volte a far valere i fatti sopravvenuti impeditivi, modificativi o estintivi del credito (si veda, quanto a quest’orientamento, per tutte, Cass. n. 9339/12).

Nel comporre il citato contrasto, le Sezioni Unite hanno quindi affermato che l’Agenzia può denegare il rimborso fin quando il contribuente possa vantarlo, laddove la perpetuità dell’eccezione sta semplicemente a significare che, al cospetto dell’inerzia dell’Amministrazione, chi vanti una pretesa al rimborso deve ricorrere al giudice e, a fronte della contestazione del fisco, deve provare i fatti costitutivi del diritto vantato.

Nel confermare tale impostazione, le Sezioni Unite evidenziano che l’attività di controllo della dichiarazione è funzionale all’adempimento degli obblighi tributari, che nascono in dipendenza dell’insorgenza dei relativi presupposti, e non già a seguito dell’esercizio di quell’attività e dei conseguenti avvisi di accertamento (Cass., sez. un., n. 4779/87; sez. un., n. 9201/90; n. 13275/20; n. 28192/20; n. 8602/21).

Gli effetti dell’omesso esercizio del potere di accertamento e di rettifica della dichiarazione si producono, quindi, sulla liquidazione che la dichiarazione ha operato: da un lato sull’imponibile e, dall’altro, sull’imposta liquidata.

Termini per il disconoscimento del credito IVA indicato in dichiarazione: alcune osservazioni

In definitiva, l’omesso esercizio si riverbera sul debito del contribuente, di modo che l’Amministrazione, che sia decaduta dai propri poteri di accertamento e rettifica, non può pretendere un’imposta maggiore di quella liquidata in dichiarazione.

Coerentemente, peraltro, l’Amministrazione non può contestare neppure il credito che scaturisca dalla sottostima dell’imposta dovuta, che in realtà era maggiore: e ciò per il rapporto di proporzionalità inversa tra debito e credito. Ed è a questo credito, rileva la Corte, che si riferisce il secondo periodo del citato comma 1 dell’art. 57 del Dpr. n. 633/72.

Il credito che nasca, invece, come era anche nel caso in esame, dal coacervo delle poste detraibili che prevalgono sul debito, e che quindi eccedono l’imposta liquidata, esiste in quanto (e solo se) ne sussistano i fatti generatori, sicché non è sufficiente che sia esposto in dichiarazione, né è necessario che sia accertato dall’Amministrazione (cfr., Cass., n. 18427/12; n. 27580/18).

Né l’inerzia dell’Amministrazione finanziaria può equivalere al riconoscimento implicito del credito.

Al contrario, affermano i giudici di legittimità, il legislatore prende sì in considerazione l’inerzia, ma assegna ad essa il significato di rifiuto tacito, in quanto tale impugnabile, laddove l’art. 21, comma 2, del Dlgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ammette il ricorso contro il silenzio rifiuto opposto dall’Amministrazione a qualsiasi richiesta di rimborso, comprese dunque quelle rappresentate dall’indicazione in dichiarazione del credito d’imposta, idonea a manifestare la volontà di richiedere il rimborso (cfr., Cass. n. 21734/14; n. 10690/18; n. 17841/18).

L’omesso esercizio del potere di controllo non determina, quindi, alcun effetto di consolidamento del credito vantato, che può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato (cfr., Cass., Sez. un., n. 8500/21).

Su un piano speculare, d’altronde, rileva la Cassazione, la dichiarazione non può precludere al contribuente di dimostrare, in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva, l’inesistenza, anche parziale, di presupposti d’imposta erroneamente dichiarati e, per conseguenza, di presentare nei termini previsti istanza di rimborso, nonostante l’errore, contenuto in dichiarazione.

Sicché, già sul piano logico, non è possibile costruire come titolo di un diritto, in quanto tale tendenzialmente stabile, la dichiarazione fiscale, fisiologicamente instabile perché emendabile in ogni tempo (anche direttamente in sede contenziosa), in caso, appunto, di errori di fatto o di diritto che abbiano determinato l’indicazione di un maggior debito, o di un minor credito d’imposta.

Ne risulta così depotenziata l’asimmetria di posizioni paventata dai critici di tale orientamento.

E allora, secondo le regole ordinarie, il contribuente che intenda far valere la propria pretesa al rimborso deve assumersene l’onere probatorio; il che a maggior ragione vale a fronte della contestazione del fisco.

Tali principi, conclude la Corte, non subiscono del resto temperamenti o deroghe nel caso dell’Iva, essendo anzi finalizzati a scongiurare il riconoscimento di crediti Iva inesistenti, che si porrebbero in contrasto col principio di neutralità, tipico di tale imposta.

Infine, viene ancora evidenziato, non si prospetta così neppure alcuna lesione del principio di legittimo affidamento (creatosi per effetto dell’inerzia dell’Amministrazione), essendo già stato sottolineato (vedi Cass., n. 8500/21) che, in via generale, il solo decorso del tempo e il comportamento meramente passivo dell’Amministrazione finanziaria non sono idonei a produrre nel contribuente un affidamento tutelabile.

Rileva anzi la Corte che la condotta dell’Amministrazione di contestazione dell’esistenza di crediti risponde, in tali casi, all’obbligo, su di essa gravante, di assicurare la riscossione dell’Iva dovuta.

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