Responsabilità processuale dell’amministrazione finanziaria: condanna alle spese di giudizio e lite temeraria

Condanna alle spese di giudizio e lite temeraria in caso di cessata materia del contendere per annullamento dell'atto impugnato in autotutela: il caso analizzato con la sentenza della Corte di Cassazione numero 14415/2021 con uno sguardo anche all'eventuale condanna al risarcimento per responsabilità aggravata.

Responsabilità processuale dell'amministrazione finanziaria: condanna alle spese di giudizio e lite temeraria

La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 14415 del 25 maggio 2021, si è espressa su un caso di condanna alle spese dell’Amministrazione finanziaria, a seguito di cessata materia del contendere per annullamento dell’atto impugnato in autotutela.

Nel caso di specie, la contribuente aveva proposto ricorso avverso un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate recuperava la maggiore Irpef e le relative addizionali per l’anno di imposta 2007, dopo aver rettificato il reddito in relazione alla cessione dell’unica azienda di famiglia.

La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso e compensava le spese.

La sentenza veniva impugnata dall’Agenzia delle Entrate e, in via incidentale, dalla contribuente sulla compensazione delle spese e sulla mancata condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata.

La Commissione Tributaria Regionale, poi, preso atto dell’annullamento in autotutela dell’avviso di accertamento, dichiarava l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere e compensava le spese.

Avverso tale decisione la contribuente proponeva infine ricorso per cassazione, lamentando la violazione degli artt. 1, 15 e 46 Dlgs. n.546 del 1992 e 92 cod. proc. civ, per aver la CTR illegittimamente compensato le spese del giudizio di appello e di quelle di primo grado, pur in presenza del persistente interesse dell’appellato incidentale, ribadito con la memoria depositata successivamente all’annullamento da parte dell’Ufficio dell’avviso.

Secondo la Suprema Corte la censura era fondata.

Corte di Cassazione - Sentenza numero 14415 del 25 maggio 2021
Il testo integrale della Sentenza numero 14415 del 25 maggio 2021 della Corte di Cassazione.

La responsabilità processuale dell’amministrazione finanziaria: il caso analizzato nella sentenza nuvero 14415/2021 della Corte di Cassazione

Evidenziano i giudici di legittimità che, come si evinceva dalla trascrizione delle conclusioni delle controdeduzioni in appello, la contribuente aveva in effetti proposto appello incidentale alla sentenza di primo grado, censurando la mancata condanna dell’Ufficio alla refusione delle spese di lite del giudizio di prime cure e l’omessa pronuncia sulla richiesta di condanna per lite temeraria ex art 96 cpc.

A seguito dell’annullamento in autotutela dell’atto impugnato, la contribuente aveva rinunciato alla domanda di risarcimento dei danni per responsabilità aggravata, insistendo però per la condanna dell’Ufficio al pagamento delle spese del giudizio di appello e di quelle del giudizio di primo grado.

La Commissione Tributaria Regionale, nonostante questo, aveva dichiarato l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, disponendo la compensazione delle spese “ai sensi del comma 3 della suddetta norma art. 46 del d.lvo 546/1992; disposizione che, rileva la Corte, nella sua attuale formulazione, a seguito dell’intervento della sentenza della Corte Costituzionale nr. 274/2005, stabilisce che “nel caso di definizione delle controversie previste dalla legge le spese del giudizio estinto restano a carico della parte che le ha anticipate.

Dunque il regime compensazione delle spese si applica, “ope legis”, solamente quando l’estinzione trova fondamento in un’ipotesi di adesione del contribuente ad un condono, o nel caso di conciliazione tra le parti con espressa regolamentazione delle spese.

Nel caso di specie, tuttavia, era stata dichiarata cessata la materia del contendere per effetto del ritiro dell’atto in autotutela da parte dell’Amministrazione Finanziaria e la contribuente, come detto, aveva espressamente manifestato il proprio interesse ad ottenere una pronuncia sulla condanna al pagamento delle spese di lite.

La CTR, quindi, nello statuire sulle spese dei due gradi di giudizio, avrebbe dovuto accertare la soccombenza virtuale ed all’esito di tale accertamento, eventualmente, avrebbe dovuto compiere le operazioni di verifica della sussistenza delle condizioni richieste dal comma 2 dell’art. 15 Dlgs. 546/1992 – “gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate” - che (sole) possono giustificare la compensazione delle spese.

Ne conseguiva, pertanto, l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza, con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Tanto premesso, in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali e con riferimento a quelli che possono essere i profili di “colpa” dell’Amministrazione finanziaria e delle conseguenti responsabilità, anche risarcitorie, che ne possono seguire in sede processuale, giova evidenziare quanto segue.

Le modalità di estinzione del processo tributario

Il decreto legislativo n. 546 del 1992 contempla tre diverse modalità di estinzione del processo tributario:

  • rinuncia al ricorso (articolo 44);
  • inattività delle parti (articolo 45);
  • cessazione della materia del contendere (articolo 46).

E la causa di estinzione che suscita più interesse sul piano interpretativo è sicuramente quella disciplinata dall’articolo 46 del decreto legislativo 546 del 1992, che contempla l’estinzione del processo tributario per cessazione della materia del contendere.

Nel tentativo di tipizzare le cause di estinzione previste dalla norma citata e senza pretesa di esaustività, esse potrebbero identificarsi con i seguenti eventi:

  • adesione al c.d. condono fiscale;
  • intervenuto annullamento in autotutela dell’atto impugnato, ovvero avvenuto riconoscimento del rimborso in corso di causa;
  • conciliazione giudiziale o extragiudiziale.

L’impropria collocazione sistematica del fenomeno della cessazione della materia del contendere tra le norme del processo tributario che disciplinano i casi di estinzione del giudizio (art. 46 Dlgs n. 546/1992) è comunque fonte di evidenti equivoci.

La cessazione della materia del contendere si ha infatti a causa della sopravvenuta carenza d’interesse della parte alla definizione del giudizio, postulando che siano accaduti nel corso del processo fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto.

Il fatto determinativo della cessazione della materia del contendere, quindi, non coincide con la condotta processuale con la quale si rinuncia alla pretesa, nè con la condotta processuale diretta alla rinuncia agli atti del giudizio, che deve peraltro essere accettata dalle parti che hanno interesse a proseguire il giudizio, e neppure con altre condotte processuali omissive (inerzia delle parti nel proseguire o riassumere il giudizio od integrare il contraddittorio) cui viene ricondotto l’effetto estintivo del giudizio (art. 45 Dlgs n. 546/1992).

L’art. 46, al comma 3, stabilisce poi che le spese del giudizio estinto restano a carico della parte che le ha anticipate, salvo diversa disposizione di legge.

La Consulta, con sentenza n. 274 del 2005, come detto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto comma proprio nelle ipotesi in cui si riferiva alla cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge.

Come poi chiarito dalla Corte costituzionale, la compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia si traduceva infatti in un ingiustificato privilegio per la parte pubblica.

Perciò, l’Amministrazione finanziaria può oggi essere condannata alle spese anche quando ritira l’atto impugnato in pendenza di giudizio (a meno che il giudice non opti per la pronuncia di compensazione, dando comunque contezza dei motivi che nel singolo caso giustificano una tale scelta).

E naturalmente potrà essere condannato anche il contribuente che rinuncia al ricorso.

In materia di compensazione delle spese processuali, conseguenti all’annullamento in autotutela dell’atto impositivo, le predette disposizioni sono state peraltro interpretate costantemente dalla Cassazione nel senso che “Nel processo tributario, alla cessazione della materia del contendere per annullamento dell’atto in sede di autotutela non si correla necessariamente la condanna alle spese secondo la regola della soccombenza virtuale, qualora tale annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione …” (Cass., Ordinanza n. 22231 del 26/10/2011; Cass. n. 7273 del 2016, nonché Cass., Ordinanza n. 3950 del 14/02/2017).

Anche in caso di autotutela da parte dell’Ufficio in corso di giudizio, qualora il riconoscimento consegua ad un comportamento processuale conforme al principio di lealtà, può conseguire dunque la compensazione delle spese di lite.

L’ufficio potrebbe per esempio giustificare la richiesta di compensazione delle spese, esponendo le ragioni che hanno consentito l’adozione del provvedimento di annullamento soltanto in corso di giudizio, ad esempio, qualora l’illegittimità dell’atto sia emersa solo a seguito dell’esame della documentazione esibita e/o delle argomentazioni esposte in sede contenziosa, o solo a seguito di modifiche normative, pronunce della Corte costituzionale o della Corte Comunitaria, che abbiano indotto l’ufficio a rivedere la propria posizione.

Tali prescrizioni, come evidenza anche la sentenza in esame, si devono poi “incrociare” con quanto previsto dall’articolo 15 del Dlgs. n. 546 del 1992, che, con l’articolo 9, comma 1, lettera f) del Dlgs. 156/2015, è stato “rafforzato” sotto il profilo del rispetto del principio della soccombenza.

L’articolo 10, comma 1, lettera b), n. 10 della legge di delega aveva infatti previsto un maggior rigore nell’applicazione del criterio della soccombenza ai fini della condanna alle spese del giudizio, con conseguente limitazione del potere discrezionale del giudice di disporre la compensazione delle spese in casi diversi dalla soccombenza reciproca.

Condanna alle spese di giudizio e lite temeraria: la sentenza numero 14415/2021 della Corte di Cassazione

La possibilità di compensare, in tutto o in parte, le spese di giudizio è dunque tassativamente condizionata alle seguenti ipotesi alternative:

  • soccombenza reciproca;
  • sussistenza di gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate dal giudice, laddove tra le «gravi ed eccezionali ragioni» non rientrano sicuramente i motivi di equità, non altrimenti specificati.

Nel processo tributario, del resto, le “gravi ed eccezionali ragioni”, da indicarsi esplicitamente dal giudice nella motivazione per giustificare la compensazione totale o parziale delle spese del giudizio, non possono essere illogiche o erronee, configurandosi altrimenti un vizio di violazione di legge, denunciabile in sede di legittimità.

La compensazione immotivata delle spese di giudizio, rendendo inoperante il principio di responsabilità, si tradurrebbe infatti in un ingiustificato privilegio per la parte soccombente, laddove la condanna alle spese processuali ha il suo fondamento nell’esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale per la parte che ha dovuto svolgere un’attività processuale per ottenere il riconoscimento di un suo diritto.

Al citato articolo 15 è stato inoltre poi anche introdotto il comma 2-bis, col quale si prevede che, ove risulti che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, la Commissione Tributaria la condanna, su istanza dell’altra parte, oltre che alle spese di giudizio, al risarcimento dei danni liquidati, anche d’ufficio nella sentenza.

La disposizione è mutuata testualmente dall’art. 96, primo comma, c.p.c., in materia di responsabilità aggravata, per la cd. lite temeraria, sulla cui applicabilità nel processo tributario c’erano fino ad oggi incertezze.

Anche in merito alla richiesta di condanna al risarcimento del danno per lite temeraria non può quindi essere adottata una motivazione stereotipata, laddove il semplice riferimento all’assenza dei presupposti per l’applicazione dell’art.96 cpc, per assenza di dolo o colpa grave, integrerebbe una motivazione solo apparente.

La responsabilità aggravata di cui all’articolo 96 del codice di procedura civile (c.d. lite temeraria) rappresenta del resto un’ipotesi risarcitoria e l’invocazione della lite temeraria non può allora essere semplicemente asserita, ma “presuppone l’accertamento” (e dunque la prova) “sia dell’elemento soggettivo dell’illecito (mala fede o colpa grave), sia dell’elemento oggettivo (entità del danno sofferto)” (Cass. 12422/95).

La stessa Corte di Cassazione ha del resto già avuto modo di affermare che la richiesta di responsabilità aggravata “non può fondarsi sulla semplice prospettazione, ad opera della parte avversaria, di tesi giuridiche errate, non rappresentando le stesse un comportamento sleale e fraudolento atto ad ingannare chi è chiamato a giudicare” (Cass. n. 1545/85).

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