Interposizione fiscale ed imputazione diretta dei redditi all’amministratore di fatto di una cartiera

Dai fatti al centro della sentenza della Corte di Cassazione numero 1358 del 2023 alle conclusioni di portata più generale: focus sui termini di applicazione della disciplina in tema di interposizione fiscale, in caso di un amministratore di fatto di una società cartiera

Interposizione fiscale ed imputazione diretta dei redditi all'amministratore di fatto di una cartiera

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 1358 del 2023, ha chiarito i termini di applicazione della disciplina in tema di interposizione fiscale, in caso di un amministratore di fatto di una società cartiera.

Nella specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva respinto l’appello proposto dal contribuente avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, che aveva a sua volta rigettato il ricorso proposto dal contribuente nei confronti di un avviso di accertamento per IRPEG, IRAP e IVA relative all’anno 2001, oltre alle conseguenti sanzioni.

I fatti al centro della sentenza della Corte di Cassazione numero 1358 del 2023

L’avviso di accertamento era stato emesso nei confronti di una società e notificato anche al ricorrente quale autore delle violazioni contestate, essendo stata ritenuta la società una mera cartiera.

La Commissione Tributaria Regionale aveva respinto l’appello del contribuente evidenziando che:

  • a) il suo coinvolgimento nella frode carosello posta in essere attraverso la società derivava dalla sua qualità di amministratore di fatto della stessa società ed era anche documentato dalla applicazione di pena su richiesta in ordine al reato consistito nella omessa presentazione delle dichiarazioni annuali obbligatorie, nonché da sentenza della CTP relativa all’anno d’imposta 2000;
  • b) le somme dovute dalla società all’Erario erano imputabili all’amministratore di fatto;
  • c) la determinazione del reddito d’impresa da parte dell’Ufficio era stata correttamente eseguita.

Il contribuente impugnava quindi la pronuncia di secondo grado con ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento al suo coinvolgimento nelle attività delle società, ed evidenziando che la CTR aveva tratto il proprio convincimento da una sentenza di applicazione della pena su richiesta, senza neppure specificare i passaggi della sentenza dai quali avrebbe tratto detto convincimento e senza indicare le condotte imputabili al contribuente.

Con un secondo motivo di ricorso si deduceva poi che all’amministratore di fatto di una società di capitali, soggetto terzo rispetto a quest’ultima, non avrebbero potuto imputarsi direttamente l’attività e le imposte della società di capitali e tanto meno le sanzioni per le attività illecite ed evasive dell’ente.

Secondo la Suprema Corte il ricorso era infondato.

Evidenziano i giudici che, quanto al primo motivo di impugnazione, come si evinceva dalla motivazione della CTR, la circostanza che il contribuente fosse amministratore di fatto della società e, conseguentemente, responsabile per le condotte attribuite a quest’ultima era stata edotta:

  • a) dalla sentenza della CTP che aveva respinto il ricorso del contribuente avverso altro analogo avviso di accertamento relativo all’anno 2000;
  • b) dalla sentenza di applicazione della pena su richiesta pronunciata dal giudice per le indagini preliminari, emessa a seguito di un’imputazione di omessa dichiarazione annuale obbligatoria da parte della società, con ciò evidentemente ricollegando al contribuente la responsabilità della presentazione di detta dichiarazione;

Rileva dunque la Corte che, a fronte di tali elementi probatori, ritenuti sufficienti dal giudice di appello, spettava al contribuente indicare le ragioni per le quali egli sarebbe invece stato estraneo alla compagine sociale e i fatti che non erano stati eventualmente considerati dalla CTR ai fini dell’esclusione della sua qualifica di amministratore.

Il ricorrente, invece, si era limitato a generiche contestazioni, inidonee a scalfire la decisione del giudice di merito.

Secondo la Cassazione, poi, anche il secondo motivo di impugnazione era infondato.

I giudici ricordano a tal proposito che, come rilevato da una recente sentenza della Corte (Cass. n. 23231 del 25/07/2022), l’applicazione della norma eccezionale introdotta dall’art. 7 del DL. n. 269 del 2003 presuppone che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata, dotata di personalità giuridica, poiché solo la ricorrenza di tale condizione giustifica il fatto che la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l’autore materiale della violazione, ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico (società dotata di personalità giuridica) quale effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore.

Viceversa, qualora risulti che il rappresentante o l’amministratore della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio, viene meno la ratio giustificatrice dell’applicazione dell’art. 7 del Dl. n. 269 del 2003, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, dovendo essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito (cfr., Cass. n. 28332 del 7/11/2018; Cass. n. 10975 del 18/04/2019; Cass. n. 32594 del 12/12/2019; Cass. n. 25757 del 13/11/2020; Cass. n. 29038 del 20/10/2021).

Tale ragionamento, peraltro, non riguarda solo il profilo sanzionatorio in senso stretto, il quale, anzi, costituisce un aspetto ulteriore, un posterius, rispetto alla pretesa sostanziale e al debito tributario.

È evidente, infatti, rileva la Suprema Corte, che se l’amministratore di fatto ha utilizzato lo schermo sociale nel suo esclusivo interesse sorge allora anche la presunzione che egli abbia tratto esclusivo beneficio pure dei proventi dell’attività.

Come precisato da ultimo (v. Cass. n. 36003 del 22/11/2021) non va a tal proposito trascurato che “la materia delle imposte sui redditi, per effetto dell’art. 19 del d.lgs. n. 46 del 1999, è regolata dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973” sicché “in via presuntiva, e secondo l’id quod plerumque accidit, può ritenersi che l’amministratore di fatto di una cartiera abbia direttamente incamerato i proventi dell’evasione addebitabile alla società e che, conseguentemente, spetti all’amministratore stesso fornire la prova contraria. Con la precisazione che in simili ipotesi è ben possibile l’assenza di evidenze contabili dell’evasione, analogamente a quanto chiarito dalla Corte a proposito dei ricavi occulti di società di capitali a ristretta base, distribuiti ai soci”.

Sottolinea comunque la Cassazione che ferma, dunque, l’effettività della società di capitali – al di là del proposito dei soci e ideatori di realizzare con essa un mero schermo rispetto ad eventuali attività illecite –, va esaminato se, e a quali condizioni e limiti, in una situazione come quella in considerazione, l’Amministrazione finanziaria possa imputare ad un diverso soggetto i redditi maturati dall’ente (e le relative imposte), laddove il meccanismo che, nel nostro ordinamento, mira a “riallineare” l’attività svolta da un altro soggetto sull’effettivo percettore dei redditi è quello previsto dall’art. 37, terzo comma, del Dpr. n. 600 del 1973 che dispone:

“In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”.

Focus su interposizione fiscale ed imputazione diretta dei redditi all’amministratore di fatto di una cartiera

La norma prevede dunque che l’Ufficio possa utilizzare elementi indiziari, dotati di pregnanza presuntiva, al fine di accertare il fatto costitutivo dell’imposizione tributaria rappresentato dal possesso effettivo di un reddito “per interposta persona”.

E come costantemente ribadito dalla Corte, ai fini del soddisfacimento dell’onere probatorio dell’Ufficio, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità, con riferimento a una connessione anche solo probabile di accadimenti in base a regole di esperienza (Cass. n. 13807 del 22/05/2019; Cass. n. 4168 del 21/02/2018; Cass. n. 17833 del 19/07/2017; Cass. n. 25129 del 7/12/2016; Cass. S.U. n. 9961 del 13/11/1996).

In altri termini, il possesso del reddito “per interposta persona” costituisce il fatto ignoto oggetto della prova logica a carico dell’Ufficio, quale elemento che lega il reddito prodotto dal soggetto interposto al titolare effettivo.

In definitiva, la rilevanza dell’effettivo possesso del reddito rispetto alla sua titolarità formale sancisce la prevalenza della sostanza (possesso del reddito) sulla forma (titolarità del reddito) e della realtà sull’apparenza.

Tale percorso argomentativo e giuridico, peraltro, rileva la Corte, non è limitato dalla tipologia di reddito oggetto di accertamento e, dunque, si estende – come già precisato dalla stessa Corte (Cass. n. 5276 del 17/02/2022) – anche al reddito d’impresa e all’ipotesi in cui l’interposto sia una società di capitali.

E a tal fine assume rilievo determinante la figura dell’amministratore di fatto della società, laddove, in ogni caso, tale ruolo, per assumere incidenza, deve “assumere una particolare pregnanza al fine di integrare la presunzione del possesso del reddito perché deve essere tale da comportare la traslazione del reddito realizzato dall’ente collettivo percettore interposto nel suo complesso (e, quindi, anche ai fini Irap e Iva) al soggetto persona fisica interponente come se fosse stato prodotto da quest’ultimo” (così Cass. n. 5276 del 2022, cit.).

Ciò significa che la posizione dell’interponente non deve essere quella di mero gestore dell’ente collettivo, ma di soggetto che disponga, uti dominus, delle risorse del soggetto interposto.

Ne deriva che, in tale ipotesi, la prova che incombe sull’Amministrazione finanziaria ha ad oggetto il totale asservimento della società interposta all’interponente.

Non ha rilievo, invece, la dimostrazione che l’interposizione sia reale o fittizia, dato che l’art. 37, terzo comma, del Dpr. n. 600 del 1973, si riferisce a qualsiasi ipotesi di interposizione, compresa quella reale, ed anche ad un uso improprio di un legittimo strumento giuridico (ex multis, Cass. n. 11055 del 27/04/2021; Cass. n. 17128 del 28/06/2018; Cass. n. 5408 del 03/03/2017).

A fronte di tale prova, che, come detto, può essere fornita anche solo in via presuntiva, incomberà poi al contribuente fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione, ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto (cfr., Cass. n. 29228 del 20/10/2021; Cass. n. 5276 del 2022, cit.).

Va sottolineato, infine, che, in caso di interposizione mediante una società, la traslazione riguarda esattamente il reddito d’impresa nel suo complesso, come prodotto dal contribuente interposto, avuto riguardo alla pluralità di elementi che lo compongono (salva la prova, a carico dell’Ufficio, di un maggior reddito conseguito dall’interponente), che, dunque, è attribuito all’interposto quale effettivo possessore del reddito ed effettivo debitore dei tributi formalmente imputati alla società.

Quanto all’IVA, più in particolare, la Cassazione sottolinea che, in base ai principi comunitari, nell’esecuzione delle prestazioni di servizi tra il soggetto gestore uti dominus e la società si instaura, quando il primo agisca in nome proprio ma per conto della seconda, un rapporto riconducibile al mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore e il mandante è la società.

Ciò si verifica, in particolare, quando l’imprenditore, che gestisca delle società cartiere, disponga in autonomia in merito alle attività e alle transazioni e decida, per conto della società, sulla realizzazione delle operazioni commerciali, individuando, ad esempio, i venditori (esteri) e i successivi acquirenti (nazionali).

L’art. 6, § 4, della direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977 (cd. sesta direttiva), corrispondente all’art. 3, terzo comma, del Dpr. n. 633 del 1972, stabilisce peraltro che, qualora un soggetto passivo partecipi, in nome proprio ma per conto terzi, ad una prestazione di servizi, si deve ritenere che egli stesso abbia ricevuto o fornito i detti servizi a titolo personale.

Si realizza quindi in tali casi la finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche fornite consecutivamente, sull’assunto che l’operatore che partecipa alla prestazione di servizi – il commissionario – abbia in un primo tempo ricevuto i servizi in questione da prestatori specializzati, prima di fornire, in un secondo tempo, gli stessi servizi all’operatore per conto del quale agisce (v., tra le varie, Corte di giustizia, 4 maggio 2017, in C-274/15, Commissione c/ Lussemburgo, punto 86; e, nella giurisprudenza interna, ex multis, Cass. n. 30360 del 23/11/2018; Cass. 20591 del 29/09/2020).

Il mandatario, quindi, assume e acquista in nome proprio gli obblighi e i diritti derivanti dal compimento dell’affare trattato per conto del mandante.

E da ciò ne deriva che se la prestazione di servizi a cui l’operatore partecipa è soggetta all’IVA, pure il rapporto giuridico tra costui e la parte per conto della quale agisce è soggetto all’IVA (v. Corte di giustizia, in C-274/15, cit., punto 87).
Sottolinea peraltro, sul punto, la Corte di Cassazione che resta in tal caso estranea ed irrilevante anche ogni indagine sul carattere oneroso o meno del rapporto di mandato, dato che, ai fini dell’applicazione della disciplina IVA del mandato senza rappresentanza, la norma unionale non contiene alcun riferimento ad un eventuale carattere oneroso della partecipazione alla prestazione di servizi (v. Corte di giustizia, 19 dicembre 2019, in C-707/18, Amărăşti Land Investment SRL, punto 38).

Dai fatti alle conclusioni, prendendo in esame la normativa di riferimento

In conclusione, alla luce delle su esposte considerazioni, il contribuente non riveste, in questo caso, (tanto) la posizione di (mero) amministratore di fatto, ma è considerato proprio l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società, come se fossero stati da lui prodotti; il che assume rilievo sia sotto il profilo impositivo che sanzionatorio, per gli inadempimenti e le violazioni che lo caratterizzano (cfr., Cass. n. 23231 del 2022).

Nella specie, in definitiva, la CTR aveva correttamente ritenuto l’imputabilità al contribuente degli omessi versamenti delle imposte da parte della società, avendola questi utilizzata, uti dominus (sia pure in concorso con altri soggetti), al fine di porre in essere una frode consistita nell’acquisto di autovetture in Germania e nella rivendita delle stesse, omettendo il versamento dell’IVA e beneficiando direttamente dei proventi di tale attività illecita.

In altri termini, la società, irregolarmente costituita, era stato lo strumento attraverso il quale si era esplicata l’attività criminosa facente capo al contribuente e ad altri soggetti, i quali rispondevano quindi direttamente delle imposte non versate dalla società e, come tali, erano stati legittimamente destinatari della notifica dell’avviso di accertamento notificato alla medesima società.

A fronte di tale ricostruzione, del resto, neppure si poneva la questione di applicabilità dell’art. 7 del Dl. n. 269 del 2003: le sanzioni, infatti, come detto, erano state correttamente irrogate al ricorrente in relazione al rapporto fiscale a lui strettamente riferibile, in quanto effettivo possessore del reddito d’impresa.

Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali giova anche evidenziare quanto segue.

È nella prova della relazione dell’interponente con la fonte di reddito del soggetto interposto che si risolve la prova del “possesso” del reddito, la quale prescinde dalla natura dell’interposizione (ossia, se l’interposizione possa o meno ricomprendere anche quella reale), atteso che la norma in esame imputa al contribuente i redditi formalmente intestati ad un altro soggetto, laddove, in base a presunzioni, egli ne risulti l’effettivo possessore, senza distinguere, appunto, tra interposizione fittizia e reale (Cass., 29 luglio 2016, n. 15830; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27625; Cass., 27 aprile 2021, n. 11055; Cass., 22 giugno 2021, n. 17743).

La disciplina dell’interposizione fittizia, peraltro, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto d’imposta.

Come visto, la norma di cui all’art. 37 comma 3 D.P.R. n. 600/1973 attribuisce all’Amministrazione finanziaria il potere di imputare al contribuente i redditi di cui appaiano titolari altri soggetti, quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona.

La norma è dunque chiara. Ciò che non è sempre chiaro è se tale norma sia una norma di contrasto ad un fenomeno evasivo od elusivo. L’elusione fiscale, in sè, si differenzia però dall’interposizione fittizia.

Nell’elusione, infatti, le parti dell’operazione sono effettivamente quelle che risultano dagli atti o negozi. Nell’interposizione (fittizia) invece le parti vere (interposte) sono diverse da quelle che appaiono all’esterno (interponenti). Questo è il caso, appunto, della simulazione relativa soggettiva, nella quale l’interponente esprime la volontà “effettiva”, mentre l’interposto manifesta una volontà solo apparente.

Quando una persona fisica o giuridica interpone tra sé e il Fisco un altro soggetto, si crea dunque una situazione in cui l’apparenza mira a mascherare la realtà.

Diversamente, con l’elusione si pone in essere un negozio effettivamente voluto dalle parti, disciplinato nei suoi effetti “tipici” dall’Ordinamento, ma con una sostanziale distorsione di quegli stessi effetti, che diventano irrilevanti o comunque secondari rispetto al vero obiettivo (non contemplato dall’Ordinamento), consistente nel raggiungimento dell’obiettivo fiscale.

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