Principio di neutralità, diritto alla detrazione IVA e società di comodo

La Corte di Giustizia UE si è recentemente espressa in tema di rispetto del principio di neutralità in riferimento alla disciplina nazionale, che nega il diritto alla detrazione, al rimborso o alla compensazione dell'IVA in caso di società non operativa

Principio di neutralità, diritto alla detrazione IVA e società di comodo

La Corte di Giustizia UE, Terza Sezione, su domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Corte di Cassazione, con la Sentenza 7 marzo 2024 nella causa C-341/22, si è pronunciata in tema di rispetto del principio di neutralità in riferimento alla disciplina nazionale che nega il diritto alla detrazione, al rimborso o alla compensazione dell’Iva a monte in caso di società non operativa.

Nel caso di specie, la domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 1, e dell’articolo 167 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, nonché dei principi di neutralità, di proporzionalità, e di tutela del legittimo affidamento e certezza del diritto.

Principio di neutralità: il caso di specie

Tale domanda era stata presentata nell’ambito di una controversia tra una società e l’Agenzia delle Entrate, relativamente all’esercizio del diritto alla detrazione dell’Iva, laddove, in sostanza, in base all’articolo 30 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, le società non operative non possono ottenere il rimborso del credito Iva che figura nella loro dichiarazione e che risulta da un importo di Iva detraibile superiore a quello dell’Iva riscossa. Tale credito non può neppure costituire oggetto di compensazione o di cessione.

Il credito potrebbe essere riportato a scomputo dell’Iva a debito relativa ai periodi d’imposta successivi. Tuttavia, qualora per tre periodi d’imposta consecutivi la società non operativa non effettui operazioni rilevanti ai fini dell’Iva non inferiore all’importo che risulta dalla soglia di reddito indicata, il credito in discussione non può più essere riportato.

In tale ipotesi, pertanto, la società perde il diritto alla detrazione.

In applicazione della detta normativa l’Agenzia delle Entrate aveva notificato l’avviso di accertamento in contestazione, nel quale si affermava, in particolare, che la contribuente era considerata una società non operativa (società di comodo) per il periodo d’imposta 2008, essendo stato riscontrato che l’importo delle operazioni a valle soggette a IVA, che quest’ultima aveva dichiarato, era inferiore alla soglia al di sotto della quale, ai fini dell’applicazione dell’articolo 30 cit., le società sono ritenute essere non operative.

Risultava inoltre che la società non aveva raggiunto la soglia richiamata per tre periodi d’imposta consecutivi (2006, 2007 e 2008). Di conseguenza, l’Agenzia aveva negato il diritto alla detrazione del credito IVA per il periodo d’imposta 2009.

La società proponeva quindi ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, che lo respingeva, con sentenza poi confermata anche in sede di appello.

La società proponeva infine ricorso per cassazione, sostenendo che il rifiuto di concederle il beneficio del diritto alla detrazione dell’IVA non era compatibile con il diritto comunitario.

La Corte di Cassazione rinviava la questione alla Corte comunitaria, esponendo che la normativa italiana mira a disincentivare la costituzione di società di comodo e, quindi, ad impedire che persone giuridiche che svolgono formalmente un’attività economica, senza tuttavia essere, in realtà, operative, beneficino di vantaggi fiscali.

A tal fine, l’articolo 30 della legge n. 724/1994, rilevava la Suprema Corte, prevede appunto un meccanismo deterrente, che si fonda sulla presunzione secondo cui il carattere non operativo di una società può essere dedotto dal fatto che gli introiti che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui essa dispone sono inferiori rispetto ad una determinata soglia di reddito, potendo peraltro la stessa società comunque confutare questa presunzione, dimostrando che, a causa di situazioni oggettive, non è stato possibile raggiungere la soglia di reddito.

Tanto premesso, il giudice del rinvio, per quanto di interesse, si chiedeva, in primo luogo, se la qualità di soggetto passivo e, di conseguenza, il diritto alla detrazione dell’Iva assolta a monte potessero essere negati ad una società che effettua operazioni rilevanti ai fini dell’Iva per il solo motivo che non ha raggiunto la soglia di reddito prevista dalla normativa italiana, dubitando lo stesso giudice della compatibilità della disciplina con l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva Iva, da cui risulta, in sostanza, che la qualità di soggetto passivo deriva ex se dall’esercizio, da parte del soggetto che si avvale di tale qualità, di un’attività economica.

In secondo luogo, tale giudice si chiedeva se la normativa italiana fosse compatibile con l’articolo 167 della direttiva Iva, nonché con il principio di neutralità dell’Iva e con il principio di proporzionalità, ricordando che, sebbene la lotta contro frodi, evasione fiscale ed eventuali abusi costituisca un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva Iva, le misure adottate dagli Stati membri non devono tuttavia eccedere quanto necessario per raggiungere tale obiettivo, e, in particolare, non possono essere utilizzate in modo tale da mettere sistematicamente in discussione il principio di neutralità dell’imposta.

La Corte Comunitaria, condividendo i “dubbi” del giudice del rinvio, quanto alla prima questione, rileva che l’analisi del tenore letterale dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva Iva, non solo mette in evidenza la portata dell’ambito di applicazione della nozione di “attività economica”, ma precisa anche il carattere oggettivo di quest’ultima, nel senso che l’attività viene considerata di per sé stessa, indipendentemente dai suoi scopi o dai suoi risultati (cfr., sentenza del 25 febbraio 2021, Gmina Wrocław, C-604/19, punto 69).

Ne consegue che la qualità di soggetto passivo Iva non è subordinata alla condizione che una persona effettui operazioni rilevanti ai fini dell’Iva il cui valore economico superi una soglia di reddito previamente fissata.

Infatti, ciò che rileva è esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica, e che sfrutti un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità.

Nel caso di specie, sarebbe spettato quindi al giudice del rinvio stabilire se, nel corso dei periodi d’imposta controversi, in relazione ai quali l’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto che la società non avesse carattere operativo, tale società avesse effettivamente esercitato un’attività economica, nel senso indicato dalla giurisprudenza comunitaria menzionata.

Quanto alla seconda questione, relativa alla eventuale violazione dell’articolo 167 della direttiva Iva, nonché dei principi di neutralità e di proporzionalità, la Corte UE ricorda, in primo luogo, che il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’Iva costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’imposta.

Il diritto a detrazione costituisce, infatti, parte integrante del meccanismo dell’imposta e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni, laddove il sistema comune dell’Iva garantisce la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano, in linea di principio, a loro volta soggette all’Iva (v., in tal senso, sentenze del 25 novembre 2021, Amper Metal, C-334/20, punto 23, nonché del 25 maggio 2023, Dyrektor Izby Administracji Skarbowej w Warszawie, C-114/22, punti 27 e 28).

In definitiva, concludono i giudici comunitari, nessuna disposizione della direttiva Iva subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’Iva, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia, dovendosi tuttavia osservare che il diritto alla detrazione può essere comunque negato al soggetto passivo qualora sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che esso è invocato fraudolentemente o abusivamente.

Pertanto, quand’anche siano soddisfatte le condizioni sostanziali del diritto a detrazione, le autorità e i giudici nazionali devono negare il beneficio di tale diritto se è (adeguatamente) dimostrato che viene invocato in modo fraudolento o abusivo.

Il principio del divieto di pratiche abusive vieta infatti le costruzioni meramente artificiose, prive di effettività economica, realizzate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.

In ogni caso, conclude la Corte, le misure che gli Stati membri possono adottare per assicurare l’esatta riscossione dell’Iva ed evitare le evasioni non devono eccedere quanto necessario per conseguire tali obiettivi, non potendo quindi essere utilizzate in maniera tale da mettere sistematicamente in discussione il diritto alla detrazione e, pertanto, la neutralità dell’imposta (fr., sentenza del 9 dicembre 2021, Kemwater ProChemie, C-154/20, punto 28, nonché del 25 maggio 2023).

Applicando dunque tali criteri al caso di specie, secondo la Corte comunitaria, la richiamata presunzione di cui all’art. 30 cit. risulta fondata su un criterio, quello di una soglia di ricavi, che è estraneo a quelli richiesti ai fini della dimostrazione di un’evasione o di un abuso, dato che detta presunzione non si basa sulla valutazione della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini dell’Iva effettuate nel corso di un determinato periodo d’imposta, né su quella del loro effettivo utilizzo al fine di realizzare operazioni a valle, bensì soltanto sulla valutazione del loro volume.

Pertanto, essa non può essere considerata idonea a dimostrare che il diritto alla detrazione dell’Iva sia stato invocato in modo fraudolento o abusivo.

Ne consegue che la presunzione in esame eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenire le evasioni e gli abusi.

Principio di neutralità: le conclusioni della Corte di Giustizia UE

Al di là dello specifico caso processuale, in via più generale, giova anche evidenziare quanto segue.

L’art. 30 della L. n. 724/1994 è norma antielusiva, volta a disincentivare il ricorso all’utilizzo dello strumento societario come schermo per nascondere l’effettivo proprietario di beni, avvalendosi delle più favorevoli norme dettate per le società, che, al di là dell’oggetto sociale, vengono costituite per gestire il patrimonio nell’interesse dei soci.

La presunzione relativa di inoperatività si fonda pertanto sull’id quod plerumque accidit, in quanto - tranne ipotesi eccezionali - non vi è effettività d’impresa senza una continuità minima nei ricavi.

In conclusione, al di là dei “tecnicismi” delle società effettivamente qualificabili come di comodo e/o non operative, occorre comunque interrogarsi sulla razionalità ed efficienza di una tale disciplina.

Il pragmatismo del legislatore fiscale, chiaramente ispirato a facilitare i controlli con criteri forfettari, si è espresso infatti, come visto, col ricorso a fattori indicativi, in termini quantitativi, delle attività economiche, facendo riferimento al volume d’affari, che, per evitare la presunzione di ricavi e redditi minimi, deve superare una soglia di valori desunta dall’applicazione di coefficienti percentuali ragguagliati al valore dei beni materiali facenti parte dell’attivo patrimoniale, impiegati o no nell’attività svolta.

La normativa, così, anche in linea con quanto ora affermato dalla Corte comunitaria, non ha affrontato e risolto, però, l’argomento centrale che avrebbe potuto e dovuto orientare verso l’individuazione di abusi della forma societaria rispetto al concreto esercizio dell’attività declinata dall’oggetto sociale, valutando cioè l’esistenza o no di un’attività d’impresa, quale che ne sia la dimensione in generale e quali che siano i beni costituenti la sua struttura patrimoniale.

Le ipotesi di esclusione della detta presunzione, sono del resto oggi le più svariate e denotano un tentativo di sistemazione della disciplina che finisce però per confondere la sua vera ratio (contrasto all’uso distorto della forma societaria a fini fiscali) col contrasto all’evasione tout court.

Insomma, una disciplina probabilmente da rivedere, le cui contraddizioni, come visto, sono infatti ora emerse anche in termini di criticità nel rapporto con la disciplina comunitaria.

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