Profili specifici, sostanziali e processuali, dell’autotutela tributaria

Autotutela tributaria sotto la lente di ingrandimento della Corte di Cassazione: i chiarimenti su alcuni aspetti rilevanti nella Sentenza numero 5176 del 2023

Profili specifici, sostanziali e processuali, dell'autotutela tributaria

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 5176 del 2023, ha chiarito alcuni rilevanti aspetti in merito alla specificità dell’autotutela tributaria.

Nel caso di specie, la controversia atteneva all’omesso versamento delle ritenute operate dall’A.S.L. per l’anno di imposta 2009, a cui seguiva atto di ripresa a tassazione non rivisto in autotutela, sulla cui domanda si formava il silenzio rifiuto, poi impugnato dall’Amministrazione sanitaria.

Il ricorso veniva rigettato sia in primo che in secondo grado.

La contribuente proponeva quindi ricorso per revocazione straordinaria, sull’assunto di essere incorsa in errori e di aver trovato documenti nuovi e rilevanti per il giudizio.

Anche la revocazione aveva però esito sfavorevole, sull’assunto non fosse stata data dimostrazione dell’impossibilità di produrre in momento precedente i documenti ritenuti essenziali al fine del decidere.

L’A.S.L. introduceva infine una nuova domanda di autotutela, a cui l’Ufficio rispondeva di non poter aderire, poiché sul rapporto si era formato il giudicato.

Avverso il diniego ricorreva nuovamente l’Amministrazione sanitaria.

Questa volta il ricorso veniva accolto sia in primo che in secondo grado.

Autotutela tributaria al centro della Sentenza n. 5176 del 2023 della Corte di Cassazione

L’Agenzia delle Entrate ricorreva quindi per cassazione, lamentando, per quanto di interesse, la violazione dell’art. 2-quater, primo comma, Dl. n. 564/1994, dell’art. 2, secondo comma, Dm. 37/1997 e dell’art. 19 Dlgs. n. 546/1992, per avere la Commissione Tributaria Regionale ritenuto illegittimo il rifiuto opposto alla richiesta di autotutela, perché relativa a controversia definita con sentenza passata in giudicato.

Sotto altro profilo l’Amministrazione finanziaria deduceva poi la violazione dei principi del giudicato e della stabilità dei rapporti e, ancora sotto ulteriore profilo, criticava la ratio decidendi della sentenza , laddove aveva affermato un dovere di generale imparzialità dell’amministrazione pubblica ed un dovere di rimozione dell’atto illegittimo in ogni momento (nella specie anche considerato il rischio di chiusura dell’A.S.L. chiamata ad onorare un debito tributario di oltre dieci milioni).

Secondo la Suprema Corte le censure erano fondate.

Evidenziano i giudici di legittimità che ogni pubblica amministrazione opera secondo il canone di legalità di cui al primo comma dell’art. 97 Cost., ivi concretandosi il principio di sovranità popolare, che, attraverso la produzione legislativa affidata alle due Camere (art. 70 Cost.), fissa i parametri dell’azione amministrativa.

Le situazioni giuridiche soggettive, gli interessi legittimi pretensivi od oppositivi vengono bilanciati e fissati in atti provvedimentali - capaci di incidere autoritativamente ed unilateralmente sui diritti personali e patrimoniali - avverso i quali è sempre ammesso ricorso giurisdizionale per violazione di legge (art. 113 Cost.), risolvendosi l’azione in una sentenza che definisce con la forza del giudicato i rapporti, trasformando gli interessi legittimi in diritti soggettivi perfetti.

Certo, rileva la Corte, permane ancora la possibilità della P.A. di intervenire sul rapporto, in ragione del generale potere a provvedere (art. 21 e ss. L. n. 241/1990), ma tale intervento deve tuttavia essere giustificato da sopravvenuti, eccezionali, elementi, che debbono essere posti in bilanciamento con la forza del giudicato e risultare prevalenti tanto da incidere sulla sentenza, che, tradizionalmente, è “legge del caso particolare”.

Non vi è dunque alcun dovere di provvedere in autotutela, bensì - all’opposto – un obbligo di motivazione rafforzata sul carattere sopravvenuto “e rilevantissimo” degli elementi che inducono a superare il giudicato, tanto che deve essere infatti considerato nullo (art. 21 septies L. n. 241/1990 e art. 30, quarto comma, Dlgs. n. 104/2010) l’atto adottato in violazione od elusione dello stesso giudicato.

Tale disciplina, afferma la Cassazione, è del resto posta proprio a garanzia dei consociati, affinché non si produca una serie di provvedimenti con rincorsa defatigante al loro annullamento.

Ma è anche funzionale a prevenire (da parte degli stessi consociati/contribuenti) l’abuso del diritto, al solo scopo di rimettere nel circuito giurisdizionale profili ormai definiti, minando così la stabilità dei rapporti e l’affidamento sui diritti quesiti (cfr. Cass. S.U. 3698/2009 e Cass., n. 15220/2012).

Né, sottolineano i giudici, tali “eccezionali e rilevantissimi” motivi possono ridursi all’indicazione di errori nella quantificazione o calcolo di imposta, riducendosi questi a profili di interesse della sola parte contribuente (cfr. Cass. V, n. 1965/2018).

Profili specifici, sostanziali e processuali, dell’autotutela tributaria: la posizione della Corte di Cassazione

Sul punto, ricorda la Cassazione, è del resto intervenuta anche la Corte Costituzionale, affinando il principio di generale impugnazione giurisdizionale degli atti amministrativi e stabilendo che non costituisce atto tacito impugnabile il silenzio serbato dall’Amministrazione finanziaria su istanza di autotutela di cui all’art. 2 quater, primo comma, Dl. n. 564/1994, poiché non si tratta di inadempimento amministrativo, posto che l’azione si è già esplicata e la revisione non è atto dovuto (cfr. Corte ost. n. 181/2017).

Peraltro, sul punto, la Corte di Cassazione ha successivamente ribadito che in tema di contenzioso tributario, poiché il rigetto è atto definitivo in sede amministrativa, autonomamente impugnabile, una volta non impugnato, sono inammissibili l’istanza di revisione di detto rigetto e l’impugnazione (tardiva) del relativo diniego, costituendo a quel punto l’istanza una mera sollecitazione del potere di autotutela, il cui esercizio è però discrezionale e funzionale alla soddisfazione di esigenze di rilevante interesse generale (cfr., Cass. V, n. 18604/2019).

A prescindere dallo specifico caso processuale, in linea più generale, giova anche evidenziare quanto segue.

Nel processo tributario il sindacato sull’atto di diniego dell’amministrazione finanziaria di procedere ad annullamento del provvedimento impositivo in sede di autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto, in relazione a ragioni di rilevante interesse generale che giustifichino l’esercizio di tale potere.

Tale potere, del resto, si fonda su valutazioni ampiamente discrezionali e non costituisce uno strumento di tutela dei diritti individuali del contribuente (cfr., Cass., n. 12440 dell’ 11/05/2021 e, in termini: Cass., Sez. 5, 24 agosto 2018, n. 21146; Cass., Sez. 5, 20 febbraio 2019, n. 4937; Cass., Sez. 5, 26 settembre 2019, n. 24032).

La Cassazione ha inoltre più volte affermato che il diniego dell’annullamento di un atto impositivo, richiesto sollecitando il potere di autotutela dell’ente impositore, può essere impugnato dal contribuente solo per motivi riguardanti la legittimità del rifiuto e non già per contestare la fondatezza della pretesa tributaria, atteso che, altrimenti, si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa, o comunque un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo (Cass., Sez. 6, 2 dicembre 2014, n. 255249; Cass., Sez. 5, 20 febbraio 2015, n. 3442; Cass., Sez. 6, 17 maggio 2017, n. 12491; Cass., Sez. 6, 9 aprile 2018, n. 8626).

E tale impugnazione può avvenire comunque solo in relazione a ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, che, come affermato anche dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 181 del 2017, si fonda su valutazioni ampiamente discrezionali.

Vero è che l’elencazione degli atti impugnabili, contenuta nell’art. 19 del Dlgs. n. 546 del 1992, tenuto conto dell’ampliamento della giurisdizione tributaria attuato mediante la legge n. 448 del 2001, deve essere interpretata alla luce delle norme costituzionali di buon andamento della P.A. (art. 97 Cost) e di tutela del contribuente (art. 24 e 53 Cost.), dovendosi quindi riconoscere la impugnabilità innanzi al giudice tributario di tutti gli atti dell’Ente impositore che portino a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria.

E vero è che l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del Dlgs. n. 546 del 1992 è pertanto suscettibile di un’interpretazione estensiva, dovendo riconoscersi al contribuente la possibilità di ricorrere alla tutela assicurata dal giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’Ente impositore, e dunque anche in caso di provvedimenti di diniego di autotutela, ancorché l’originario provvedimento sia divenuto già definitivo, essendo tali provvedimenti idonei ad incidere sul rapporto tributario.

La valutazione però circa la sussistenza del presupposto dell’esercizio dell’autotutela dipende comunque dal contemperamento tra l’esigenza di tutelare l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi e l’interesse, altrettanto pubblicistico, alla stabilità dei rapporti giuridici.

È dunque in tali casi necessario un bilanciamento degli interessi in gioco, secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa (cfr., Corte Cost., sent. 13.07.2017, n. 181).

L’autotutela tributaria investe del resto atti posti in essere dall’ente impositore nell’esercizio di un’attività legislativamente vincolata e tale carattere “vincolato” si estende anche alla successiva fase del riesame, non riconducibile alla sfera della pura discrezionalità amministrativa (ma piuttosto a quella della discrezionalità tecnica).

L’esercizio del potere di annullamento in via di autotutela, come visto, trova del resto un limite insuperabile nell’esistenza di una sentenza di merito passata in giudicato.

Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies può essere inoltre annullato d’Ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, solo entro un termine “ragionevole”.

In tal senso rileva quindi il limite della “convalescenza” dell’atto per decorso del tempo, laddove la possibilità di annullare di Ufficio gli atti illegittimi non può spingersi fino all’eliminazione di situazioni ormai esaurite.

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