Antieconomicità: merce acquistata e venduta nell’anno successivo

Gianfranco Antico - Dichiarazione dei redditi

La Corte di Cassazione è recentemente tornata sul complesso tema dell' antieconomicità attraverso l'analisi di un caso specifico di merce acquistata in un anno e venduta nell'anno successivo

Antieconomicità: merce acquistata e venduta nell'anno successivo

È di particolare interesse l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 34772/2023, che attraverso il richiamo ad una serie di precedenti giurisprudenziali, fa il punto sulla cd. antieconomicità, attraverso un caso particolare: merce acquistata in un anno e venduta nell’anno successivo.

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Merce acquistata in un anno e venduta l’anno successivo: analisi del concetto di anti economicità. L’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 34772/2023

Richiamando un recente pronunciamento (Cass. n. 33568/2022) gli Ermellini ribadiscono che (v. ad es. Cass. n. 11324/2022; Cass. 27786/2018):

“la nozione di inerenza esprime la concreta riferibilità dei costi sostenuti all’attività d’impresa, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura, quale esito di una valutazione qualitativa, e non quantitativa, degli stessi (Cass. n. 30366/2019; Cass. n. 450/2018), e che, tuttavia, l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rivelatori del difetto di inerenza.”

La possibile rilevanza del dato quantitativo nella valutazione di inerenza di un costo, intesa come congruità di quest’ultimo rispetto ad ulteriori dati contabili dell’impresa, da cui possa desumersi la sua correlazione all’attività dell’impresa stessa (cfr., fra le altre, Cass. n. 18904/2018, diffusamente in motivazione):

“si intreccia con il profilo dell’onere della prova dell’inerenza che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, incombe sul contribuente, che deve provare l’esistenza di circostanze fattuali che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa; ma laddove l’Amministrazione adduca ulteriori elementi tali da far ritenere, per sé soli o in combinazione con quelli portati dal contribuente, che il costo non sia, in realtà, correlato all’attività d’impresa, è questi che è tenuto a fornire la prova della propria contestazione.”

È in tale prospettiva che assume rilievo la possibile valutazione circa la congruità od antieconomicità della spesa, intesa come proporzionalità fra importi corrisposti ed utilità conseguite:

“in tale ultimo caso, l’Amministrazione non può, ovviamente, spingersi a sindacare le scelte imprenditoriali; l’antieconomicità della spesa richiede, invece, la dimostrazione dell’inattendibilità della condotta, che va considerata in chiave diacronica, tenuto conto dei diversi indici che presiedono la stima della redditività dell’impresa (v. Cass. n. 21869/2016; Cass. n. 13468/2015), a fronte della quale spetta poi al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate (Cass. n. 25257/2017).”

Una tale dimostrazione, peraltro, ben può essere fornita anche con ricorso ad elementi indiziari, purché provvisti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Nel caso di specie, la riconduzione dei costi all’attività di impresa e la non antieconomicità della stessa è stata affermata dal giudice del gravame facendo riferimento alla circostanza che:

“le spese sostenute erano state giustificate dalla circostanza che, nell’anno successivo, la stessa società aveva, poi, provveduto a vendere gran parte della merce acquistata; non può, quindi, ragionarsi in termini di violazione della previsione di cui all’art. 109, cit., né di violazione del regime dell’onere della prova.”

I beni acquistati nel 2005, non venduti, avevano costituito rimanze finali e riportate come rimanze iniziali nel 2006 e venduti nello stesso anno.

Il quadro accertativo nei casi di antieconomicità della gestione

Il quadro accertativo passa attraverso un’attenta lettura dell’art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973, secondo cui:

“[...] l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.”

Norma che va letta congiuntamente con l’articolo 62-sexies, comma 3, del D.L. n. 331/1993, conv. con modif. dalla L. n. 427/1993, secondo cui gli accertamenti analitici, con posta induttiva sui ricavi ex articolo 39, comma 1, lett.d), del D.P.R.n.600/1973 e 54 del D.P.R.n.633/1972:

“possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta...”

Il procedimento presuntivo consiste, quindi, nell’interpretazione di un fatto certo per risalire ad un fatto ignoto, e che viene ritenuto provato in quanto correlato con logica consequenzialità al primo.

Il rilievo
In genere, l’iter argomentativo utilizzato nella formulazione di tali rilievi mette in risalto il costo/ricavo che si ritiene anomalo/abnorme rispetto all’attività d’impresa, illustrando i motivi in base ai quali la condotta dell’impresa assume connotati di antieconomicità, non compatibili con l’andamento della normale gestione caratteristica, individuando la (ritenuta) effettiva entità del costo deducibile (che potrebbe anche essere azzerato) o del ricavo effettivamente tassabile, utilizzando i dati di fatto e gli elementi a disposizione che possono ricondurre i citati componenti di reddito ad un carattere di normalità, secondo le ordinarie caratteristiche del soggetto sottoposto a controllo. Il tutto, auspicabilmente, in contraddittorio con il contribuente.

I rilievi sull’antieconomicità – come sopra strutturati – comportano spesso anche il recupero dell’IVA sui maggiori componenti positivi di reddito (IVA dovuta) o minori componenti negativi di reddito (IVA indebitamente portata in detrazione) accertati. Trattasi di rettifiche effettuate ai sensi dell’art. 54, commi 1 e 2, ultimo periodo del D.P.R. n. 633/1972, secondo schemi logico giuridici sostanzialmente analoghi ai fini reddituali
Il rilievo nel caso dell’ordinanza della Cassazione n. 34772/2023
A fronte di ricavi di modesta entità, la società, nel medesimo anno, aveva sostenuto costi rilevanti per l’acquisto di beni e ritenuti sproporzionati rispetto all’attività d’impresa

Il principio di inerenza

Ai sensi dell’art.109, comma 5, del T.U. n. 917/86, le spese e gli altri componenti negativi sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi.

L’inerenza, quindi, va intesa come correlazione fra onere sostenuto e attività produttiva di reddito imponibile, con la conseguenza che il concetto di inerenza non è più legato ai ricavi dell’impresa, ma all’attività della stessa; pertanto, si rendono detraibili tutti i costi relativi all’attività dell’impresa e riferentisi ad attività ed operazioni che concorrono a formare il reddito d’impresa.

In ragione delle considerazioni de quibus, si evince che per accertare la sussistenza o meno dell’inerenza occorre valutare se tra spesa ed attività o beni da cui derivano ricavi sussista una relazione immediata e diretta: in caso affermativo, l’onere risulta interamente deducibile.

Un ulteriore aspetto di rilevante interesse interpretativo riguarda il c.d. onus probandi circa la sussistenza o meno dell’inerenza con riferimento a determinate componenti negative.

In ogni caso lo stabilire con certezza – in concreto - l’inerenza di una spesa non è mai cosa facile: vanno infatti guardate il tipo di attività svolta, i rapporti con l’attività dell’impresa, le eventuali utilità personali che si possono ricevere dal sostenimento di quel costo, ecc..

Se per tradizione e lungo periodo il principio di inerenza è stato fatto discendere dall’art. 109, comma 5, del T.U. n. 917/1986, due pronunciamenti della Suprema Corte (Cass. ord.450/2018 e ord. 3170/2018) hanno sganciato tale concetto dalla previsione normativa, mettendo in evidenza che il principio di inerenza è “un principio generale inespresso, immanente alla nozione di reddito d’impresa” (Cass. n. 3170/2018), e la valutazione dell’inerenza “deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro da riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio quantitativo” ( Cass. civ. n. 450/2018).

In particolare, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 450 dell’11 gennaio 2018, ha riallineato la nozione fiscale di inerenza al fenomeno economico peculiare all’esercizio dell’attività d’impresa, affermando che “il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale”, esclusa ogni valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità, “perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo”.

Indirizzo riconfermato con l’ordinanza n. 3170 del 9 febbraio 2018, secondo cui esula ai fini del giudizio qualitativo di inerenza un “apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità, parametri che non sono espressione dell’inerenza ma:

“costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, ossia dell’esclusione del costo dall’ambito dell’attività d’impresa.”

Questo comunque non significa che gli Uffici non possano sindacare la congruità dei costi sotto il profilo della c.d. antieconomicità, ma solo che ciò costituisce piuttosto un indice rivelatore della mancanza di inerenza, pur non essendone una sua espressione (Cfr. Cass. Ord. n. 14867/2020: l’inerenza deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro dai riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio quantitativo, e deve essere distinta anche dalla nozione di congruità del costo, anche se l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rivelatori del difetto di inerenza).

Infatti, in questi casi, in assenza di un automatismo sull’inerenza del costo, l’Ufficio deve provare un qualcosa in più, anche attraverso elementi indiziari.

La stessa Cassazione, ord. n. 2060 del 21 giugno 2022, ha ritenuto che la derivazione dei costi da una attività che può essere espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del contribuente provare; prova che non può, peraltro, consistere nella esibizione di una fattura generica (Sulla tematica cfr. ANTICO-GENOVESI, Fattura con descrizione generica: quali conseguenze per il contribuente?, in “il fisco”, n. 42/2017, pag. 4013).

Sarà, quindi, onere del contribuente, anche in base al canone della vicinanza della prova, dimostrare documentalmente i presupposti dei costi dedotti (Cass. civ. n. 13588/2018):

“la Cassazione ha avuto più volte modo di affermare che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, secondo la disciplina del TUIR, l’onere di dimostrare i presupposti dei costi deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe sul contribuente, anche in base al canone della vicinanza della prova (Cass. n. 19600/2014; n. 21184/2014; n. 13300/2017).”

Ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, cfr. Cass. sentenza n. 29342/2022, secondo cui:

“In materia di costi deducibili dal reddito d’impresa, ai sensi degli art. 109, comma 5, d.P.R. n. 917 del 1986 e 19, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, non è inerente all’attività d’impresa il maggior compenso che il contribuente si sia spontaneamente offerto di pagare alla controparte per remunerare prestazioni di consulenza già ricevute ed effettuate in esecuzione di un titolo contrattuale che prevedeva in anticipo, per i medesimi servizi, un minor corrispettivo predeterminato.”

L’antieconomicità della spesa richiede, da parte dell’Ufficio, la dimostrazione (che può essere fornita anche con ricorso ad elementi indiziari, purché provvisti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza) dell’inattendibilità della condotta, che va considerata in chiave diacronica, tenuto conto dei diversi indici che presiedono la stima della redditività dell’impresa (Cass. n. 21869/2016; Cass. n. 13468/2015), a fronte della quale spetta poi al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate (Cass. n. 25257/2017).

Il principio di inerenza, esprimendo una correlazione in concreto tra costi e attività d’impresa, si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde da valutazioni di natura quantitativa.

Tuttavia, l’antieconomicità di un costo, intesa, in particolare, come sproporzione fra la spesa e l’utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell’impresa, può fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza (cass. ord. n. 33568/2022).

Nè tale regola, come sottolineato recentemente (Cass. Ord. n. 31878 del 25 ottobre 2022), può ritenersi modificata dal comma 5 bis, dell’art. 7 del D.lgs. n. 546/1992, introdotto con l’art.6 della L. n. 130/2022, che non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia.

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