Antieconomicità dell’impresa: non è credibile una percentuale di ricarico negativa

Gianfranco Antico - Dichiarazione dei redditi

Gestione antieconomica dell'attività d'impresa: la percentuale di ricarico negativa è un elemento presuntivo

Antieconomicità dell'impresa: non è credibile una percentuale di ricarico negativa

L’apparente antieconomicità di un’operazione, costituita da una percentuale di ricarico negativa, è un elemento presuntivo della capacità contributiva non dichiarata, che libera gli accertatori da altri incombenti probatori e determina l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.

È questo il principio dettato dall’ordinanza della Corte di Cassazione n. 24355/2023.

Antieconomicità dell’impresa e percentuale di ricarico: il fatto oggetto di analisi

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso in Cassazione, avverso la sentenza con cui era stato rigettato l’appello proposto nei confronti della pronuncia di primo grado, che aveva accolto il ricorso del contribuente, titolare di una ditta esercente l’attività di commercializzazione all’ingrosso di prodotti cartotecnici.

Nel caso di specie, l’avviso di accertamento, fondato su un p.v.c. della G.d.F., aveva rideterminato un maggior reddito ai fini IRPEF, IRAP ed IVA per l’anno 1998, derivante dall’applicazione di un ricarico medio ponderato pari al 36 per cento, superiore a quello dichiarato del 22,42 per cento, essendo emerso un costo del venduto di gran lunga superiore ai ricavi fatturati con una evidente gestione antieconomica dell’attività di impresa.

In punto di diritto, la CTR ha affermato:

“che i risultati derivanti dalle percentuali di ricarico non potevano essere considerati prove certe dell’esistenza di elementi attivi non dichiarati, costituendo soltanto degli indizi che necessitavano di essere supportati da ulteriori elementi probatori onde assumere i caratteri di gravità, precisione e concordanza; nel caso di specie, non si riscontravano elementi che potevano essere considerati indizi di evasione tali da supportare il ricarico operato dall’Ufficio.”

Da qui il ricorso delle Entrate, per avere la CTR ritenuto illegittimo l’accertamento analitico-induttivo in questione, in quanto i risultati derivanti dalle percentuali di ricarico costituivano soltanto degli indizi non supportati da ulteriori elementi probatori onde assumere i caratteri della gravità, precisione e concordanza, sebbene, come si evinceva dal p.v.c. della GdF:

“il costo del venduto pari a L. 546.554.240 (determinato sommando il valore delle merci giacenti all’inizio del 1998 a quello degli acquisti di merce come da fatture e sottratto il valore delle merci giacenti alla data dell’accesso del 23.6.98) superasse di gran lunga i ricavi dalle vendite pari a L. 351.250,507 e a L. 258.272.432, al netto della percentuale media di ricarico del 36 per cento applicata dalla ditta stessa per gli anni di imposta 1996-1997, con evidente gestione aziendale antieconomica che si concretizzava in vendite sottocosto.”

Il pensiero degli Ermellini

Per gli Ermellini, che richiamano un precedente costante in giurisprudenza:

“pur in presenza di contabilità formalmente regolare, i ricavi possano essere ritenuti falsi anche in base alla loro sproporzione, per difetto, rispetto ai costi e che, in tale contesto, sia possibile un accertamento analitico-induttivo, il quale tenga conto delle poste passive indicate dal contribuente, per ricostruire i ricavi effettivi”

Cfr. Cass. Sentenza n. 20422/2005, secondo cui l’accertamento analitico-induttivo è sempre legittimo quando l’esposizione dei ricavi sia talmente ridotta rispetto ai costi da indurre a ritenere antieconomica la gestione.

In particolare è stato da tempo chiarito che (ex multis: Cass., sez. 5, n. 33508/2018; n. 20060/2014):

“l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con quale il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorché di rilevante importo, è consentito, ai sensi del d.p.r. n. 600/1973, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata”

Egualmente, in materia di IVA, è stato soggiunto che:

“l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del d.p.r. n. 600/1973 e del D.P.R. n. 633/1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni”

Cfr. Sez. 6-5, Ordinanza n. 26036/2015, Rv. 638202-01; eadem, Sez. 5. Ordinanza n. 25217/2018; n. 32624/2019).

A prescindere dal metodo di accertamento adottato (analitico-induttivo o induttivo):

“l’apparente antieconomicità di un’operazione costituisce elemento presuntivo, della capacità contributiva non dichiarata, che libera gli accertatori da altri incombenti probatori, e determina l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale è tenuto a dimostrare la regolarità dell’operazione, anche in relazione alla sua apparente antieconomicità”

Con riferimento all’accertamento analitico-induttivo: Cass. n. 27804 del 2018; Cass. n. 34709/2019; Cass., sez. 5, n. 39814/2021; Cass. sez. 5, n. 501/2023.

Peraltro, viene ribadito l’orientamento tradizionale secondo cui:

“In tema di accertamento analitico induttivo del d.p.r. n. 600/1973 le percentuali di ricarico, accertate con riferimento ad un determinato anno fiscale, costituiscono validi elementi indiziati, da utilizzare secondo i criteri di razionalità e prudenza, per ricostruire i dati corrispondenti relativi ad anni precedenti o successivi, atteso che, in base all’esperienza, non si tratta di una variabile occasionale, per cui incombe sul contribuente, anche in virtù del principio di vicinanza della prova, l’onere di dimostrare i mutamenti del mercato o della propria attività che possano giustificare in altri periodi l’applicazione di percentuali diverse.”

Cass., sez. 5, sentenza n. 27330/2016, Rv. 642387 - 01. Vi è dunque una presunzione di continuità, sicché è parte contribuente che deve provare la ragione e misura della diversità tra anno ed anno (Cass. sez. 5, 11717/2022).

Brevi note fra norma, prassi e giurisprudenza

Le ricostruzioni fondate sulle c.d. “percentuali di ricarico” sono spesso utilizzate dagli Uffici finanziari per la liquidazione dei maggiori imponibili da sottoporre a tassazione.

Essa altro non è che “la maggiorazione che l’impresa applica al prezzo di acquisto per determinare il prezzo di vendita”, come leggiamo a pagina 559 del “Manuale giuridico professionale di diritto tributario” (III edizione, Milano) di Lupi. Se:

“a prima vista il calcolo sembra semplice (…) è però molto complicato in aziende che trattano una grande tipologia di merci diverse (…) e si complica ancora per le imprese che operano con carattere di stagionalità, ed hanno periodi di saldi e liquidazioni, in cui i margini di ricarico sono notevolmente inferiori. Quando ci sono questi sbalzi occorre che le percentuali di ricarico siano ponderate, cioè tengano conto delle diverse quantità di beni venduti ed eventualmente delle diverse fasce di prezzo praticate nel corso dell’anno, a seconda dell’esistenza o meno di periodi di liquidazione…

In concreto i calcoli suddetti possono dare luogo a difficoltà, che inducono talvolta gli uffici finanziari a prendere scorciatoie, calcolando medie aritmetiche semplici tra percentuali di ricarico relative a beni venduti in quantità diverse od incorrendo in altri vizi metodologici che spesso provocano l’annullamento dell’accertamento in sede contenziosa.”

Prosegue così il “Manuale giuridico professionale di diritto tributario” (III edizione, Milano) di Lupi a pagina 560.

In pratica, quindi, gli Uffici - tenuto conto del fatto che notoriamente i contribuenti determinano i loro prezzi maggiorando il costo di acquisto con la applicazione di una percentuale - procedono, ricorrendone i presupposti di legge, alla determinazione dei ricavi derivanti da vendita di beni attraverso l’applicazione di una maggiorazione sui costi di acquisto.

All’esito dell’istruttoria condotta dai funzionari fiscali, a seguito ad esempio di una verifica o di una richiesta documentale del DPR 600/1973, una volta calcolato il c.d. “costo del venduto” (pari a: Giacenze iniziali + Acquisti - Rimanenze finali) i maggiori ricavi vengono liquidati sulla base della seguente formula:

“CDV x % di ricarico = margine di guadagno”

Nel caso in cui l’Ufficio proceda ad accertare (D.P.R. n. 600/1973) maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale, attraverso l’applicazione di una percentuale di ricarico medio ponderato, gli stessi devono essere liquidati:

  • applicando detta percentuale sul costo del venduto quale accertato nei confronti dell’impresa;
  • sommando l’importo così ottenuto (margine di guadagno) al predetto costo del venduto accertato;
  • detraendo dall’importo così ottenuto (ricavi accertati) i ricavi dichiarati dall’impresa o comunque accertati sulla base della sua contabilità.

Questi i principi fissati dalla Suprema Corte con la sentenza n. 19213/2017.

Il procedimento di accertamento in esame passa, quindi, attraverso il D.P.R. n. 600/73 e il D.P.R.n. 633/72, secondo cui:

“l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.”

Norma che va letta congiuntamente con il D.L. n. 331/1993 in forza del quale gli accertamenti analitici-presuntivi:

“possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta…”

In pratica, la necessità di più elementi indizianti a fondamento delle rettifiche induttive è stata superata normativamente, così che è sufficiente l’esistenza di incongruenze tra il dichiarato e l’accertabile - la cd.antieconomicità -, a legittimare l’Amministrazione finanziaria a superare la regolarità formale delle scritture contabili e a ricostruire induttivamente il reddito, spostando sul contribuente l’onere di prova contraria.

Pertanto, nell’ipotesi in cui l’Ufficio abbia specificato gli indici di inattendibilità dei dati contabili, scarsa redditività ovvero perdite sistemiche:

“In tema di IVA, la circostanza che un’impresa commerciale dichiari per più annualità un volume di affari di molto inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce una condotta commerciale anomala, di per sé sufficiente a giustificare, da parte dell’Amministrazione, una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 633/1972, con conseguente potere di applicare anche una diversa percentuale di ricarico”

Sent. 26167/11; per analoga affermazione in materia di imposte dirette, vedi la sentenza 21536/07. È questo, in estrema sintesi, il principio ricavabile dalla lettura della sentenza n. 1053/2013 (ud. 5 luglio 2011) della Corte di Cassazione.

E nell’ipotesi in cui l’Ufficio abbia illustrato i motivi in base ai quali la condotta dell’impresa assuma connotati di antieconomicità, non compatibili con l’andamento della normale gestione caratteristica, atti a dimostrare una astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, l’accertamento fiscale è assistito da presunzione di legittimità, senza che (cfr. Cass. Sent. n. 13468/2015):

“null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse”

È questo peraltro il principio ancora espresso di recente dalla Corte di Cassazione – ordinanza n. 7202/2023 – secondo cui una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo - in difetto - pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi del D.P.R. n. 600/1973 e del D.P.R. n. 633/1972.

Nel caso di specie, il dato dell’antieconomicità:

“rappresentato da un costo del venduto superiore ai ricavi dichiarati, che costituiva il più immediato e vistoso segnale di anomalia della condotta economica dell’imprenditore, è stato del tutto trascurato dalla CTR che, sulla scorta di quanto risultante del decreto penale di archiviazione, ha considerato soltanto il tema del “valore normale” degli immobili.”

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