Deposito deleghe: il divieto è costituzionalmente illegittimo

Giovambattista Palumbo - Dichiarazioni e adempimenti

Il divieto di deposito delle deleghe, procure e altri atti di conferimento è costituzionalmente illegittimo. Lo ha dichiarato la Corte Costituzionale

Deposito deleghe: il divieto è costituzionalmente illegittimo

La Consulta, con la sentenza n. 36/2025, ha dichiarato parzialmente fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 58, comma 3, del decreto legislativo n. 546/1992, dichiarando illegittima la disposizione nella parte in cui vieta il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti.

Deposito deleghe: il divieto è costituzionalmente illegittimo

Nel caso di specie, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, 102, comma 1, e 111, commi 1 e 2, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 58, comma 3, del decreto legislativo n. 546/1992, come introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera bb), del decreto legislativo n. 220/2023.

La Corte rimettente premetteva di essere investita dell’appello proposto da un contribuente contro la sentenza che ne aveva respinto parzialmente il ricorso nei confronti dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione (ADER), avverso un’intimazione di pagamento, fondata, tra le altre, su sei cartelle di pagamento relative a vari tributi.

Il giudice a quo riferiva che il ricorrente aveva dedotto diversi profili di illegittimità dell’atto impugnato, tra i quali l’omessa notificazione degli atti presupposti, e che la Corte di giustizia tributaria di primo grado aveva accolto il ricorso solo con riferimento alla censura di difetto di notificazione di due delle sei cartelle di pagamento azionate.

Avverso tale pronuncia il contribuente aveva proposto appello, lamentando che neanche per le restanti cartelle vi fosse in atti la prova dell’avvenuta notificazione, essendosi l’Amministrazione finanziaria limitata a produrre copia delle relative ricevute, dalle quali, peraltro, risultava che una delle cartelle era stata ritirata da un soggetto a lui sconosciuto, ancorché qualificato come “convivente”.

Nel giudizio di secondo grado si era costituita ADER, deducendo che ciascuna delle cartelle indicate dalla controparte era stata notificata mediante consegna nelle mani di familiare convivente e che risultava inviato l’avviso di legge a mezzo di lettera raccomandata come da distinta versata in atti.

Tanto premesso, la Corte rimettente rileva che nel fascicolo di primo grado non risultavano in realtà prodotte tutte le relazioni di notificazione delle quattro cartelle di pagamento, presupposte all’intimazione impugnata, ritenute dal giudice di primo grado validamente notificate.

Nel giudizio di appello l’Amministrazione aveva inoltre prodotto ulteriori documenti intesi a dimostrare l’avvenuta notifica delle cartelle poste a fondamento dell’ingiunzione di pagamento, ma l’appellante aveva eccepito l’irritualità di tale deposito in base all’art. 58, comma 3, del Dlgs n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), del Dlgs n. 220 del 2023.

Il giudice a quo rimetteva quindi la questione alla Consulta, dubitando della legittimità costituzionale di tale disposizione (anche nella sua disciplina transitoria) ed osservando che la disposizione esprimerebbe una scelta legislativa arbitraria, privando il giudice del potere di delibazione della prova, anche sotto il profilo della indispensabilità della documentazione.

Secondo il rimettente, il legislatore avrebbe così compiuto da sé il giudizio di indispensabilità, che, invece, il comma 1 del riformato art. 58 demanda al giudice. Secondo il giudice a quo, una simile “perimetrazione in negativo della potestas iudicandi” costituirebbe dunque una illegittima intromissione del legislatore in un ambito, quale è quello della valutazione della indispensabilità delle prove, riservato all’autorità giudiziaria, in violazione degli artt. 102, comma 1, 111, comma 1, e 24, comma 2, della Costituzione.

Il rimettente escludeva, poi, che il denunciato sacrificio dell’esercizio della funzione giurisdizionale fosse giustificato dall’esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo, violandosi peraltro l’art. 111, comma 2, Cost. anche sotto il profilo del principio di eguaglianza tra le parti del processo, posto che, alla stregua della disciplina censurata, mentre la parte privata può produrre nuovi documenti, sia pure entro i limiti stabiliti dai novellati commi 1 e 2 del citato art. 58, la parte pubblica non può depositare le specifiche tipologie di documenti elencati nel comma 3, laddove la documentazione indicata nella disposizione riguarda per l’appunto gli atti “che rendono legittima la pretesa tributaria della parte pubblica”.

Analoghe censure venivano poi sollevate anche dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia.

Il divieto di deposito delle deleghe, procure e degli altri atti di conferimento è illegittimo

Tanto premesso, la Corte Costituzionale rileva che la configurazione del nuovo art. 58 del Dlgs n. 546 del 1992 offre una assoluta resistenza ad una lettura che, in chiave costituzionale, predichi la soggezione delle ipotesi contemplate nel comma 3 alla regola generale (di indispensabilità) espressa dal comma 1.

La perentorietà del tenore letterale del divieto preclude infatti una esegesi interpretativa che faccia ricadere anche i documenti elencati al comma 3 nel divieto probatorio “temperato” di cui al comma 1.

Pertanto, conclude la Consulta, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del Dlgs n. 546 del 1992, sollevata dalla CGT Campania in riferimento agli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost., è fondata nella parte in cui vieta il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti.

Rilevano i giudici costituzionali che, per quanto riguarda le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, la esclusione degli stessi dalla regola – prevista per la generalità delle prove – della deducibilità in appello nei casi in cui il giudice ne ritenga indispensabile l’acquisizione o ne sia stata impossibile la deduzione in primo grado per causa non imputabile alla parte è manifestamente irragionevole, così travalicando il limite all’esercizio della pur ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore nella configurazione degli istituti processuali (cfr., ex multis, Corte Cost., n. 189 e n. 96 del 2024, e n. 67 del 2023).

La manifesta irragionevolezza, secondo la Corte Costituzionale, viene ancor più in luce ove si consideri che il divieto assoluto di produzione dei documenti con i quali si fornisce la prova della legittimazione sostanziale o processuale altera la parità delle armi, in quanto sottrae una facoltà difensiva alla parte che sia chiamata a fornirne dimostrazione in giudizio.

La norma, poi, laddove inibisce il deposito in appello delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere pur quando ne sia stata incolpevolmente impossibile la produzione in primo grado, comporta un’ingiustificabile compressione del diritto alla prova, nucleo essenziale del diritto di difesa ex art. 24 Cost., occorrendo a tal fine considerare che il processo di appello costituisce la prima e unica occasione per dedurre i mezzi di prova che non siano stati introdotti in primo grado per causa non imputabile alla parte.

La regola della deducibilità in secondo grado costituisce quindi, in questo caso, una declinazione dell’istituto della rimessione in termini previsto dall’art. 153 cod. proc. civ., applicabile anche nel processo tributario, il quale, essendo posto a presidio delle garanzie costituzionali difensive e del giusto processo (cfr., Cass. n. 19395/2024), rappresenta un essenziale rimedio per eliminare, in via successiva, le conseguenze pregiudizievoli dell’inattività processuale incolpevole.

La Consulta dichiara quindi l’illegittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, del Dlgs n. 546 del 1992 limitatamente alle parole:

“delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti.”

Per quanto concerne, invece, il divieto di produzione in appello delle “notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6”, pure sancito dall’art. 58, comma 3, del Dlgs n. 546 del 1992, la Corte Costituzionale respinge le censure.

Rispetto alle notificazioni, il legislatore ha infatti correttamente ritenuto superflua, perché inutilmente dilatoria, l’operatività del modello “temperato” di cui all’art. 58, comma 1, del Dlgs n. 546 del 1992, volendo, in questo modo, evitare che nelle controversie in cui si faccia questione della esistenza o della validità delle notifiche il giudizio di appello venga instaurato al solo fine di effettuare un deposito documentale omesso in prime cure.

Il divieto di produzione delle notifiche in appello si sottrae peraltro alle censure di irragionevolezza anche laddove non esclude dal proprio ambito di applicazione l’ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto depositare il documento nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, anche considerato che, rispetto alla notificazione degli atti tributari, non è in realtà configurabile, sul piano logico e giuridico, né l’ipotesi in cui il documento venga ad esistenza successivamente allo spirare dei termini per le deduzioni istruttorie del giudizio di primo grado, né quella in cui l’Amministrazione venga a conoscenza della sua esistenza solo dopo che sia maturata detta preclusione.

Ciò in quanto l’atto tributario produce i suoi effetti tipici per mezzo della notificazione, sicché o la notifica esiste – e quindi deve essere necessariamente conosciuta dall’Amministrazione (sulla quale grava un dovere qualificato di documentazione del procedimento notificatorio e di conservazione e custodia dei relativi atti) – prima che la pretesa impositiva venga azionata, oppure la stessa pretesa è da ritenersi inefficace ab origine e quindi non può essere fatta valere.

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