La società non è di comodo se i fatti dimostrano il contrario

Emiliano Marvulli - Imposte

Il mancato superamento del test di operatività per le società di comodo prevede l'applicazione di una presunzione legale relativa, che il contribuente può superare dimostrando l'esistenza di situazioni oggettive e specifiche. Spetta, poi, al giudice procedere a una adeguata valutazione delle circostanze addotte. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza numero 4850 del 24 febbraio 2020.

La società non è di comodo se i fatti dimostrano il contrario

Il mancato superamento del test di operatività per le società di comodo comporta l’applicazione di una presunzione legale relativa, che il contribuente può superare dimostrando l’esistenza di situazioni oggettive e specifiche, indipendenti dalla propria volontà, tali da rendere impossibile il raggiungimento della soglia di operatività e del reddito minimo presunto. Spetta poi al giudice di merito procedere a una adeguata valutazione delle circostanze di fatto addotte dalla società per dimostrare di esercitare una effettiva attività economica. Così ha deciso la Corte di Cassazione con la Sentenza numero 4850/2020 in tema di società di comodo.

Corte di Cassazione - Sentenza numero 4850 del 24 febbraio 2020
La società non è di comodo se i fatti dimostrano il contrario. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenze numero 4850 del 24 febbraio 2020.

La sentenza – La vicenda prende le mosse dal ricorso avverso un avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette emanato dall’Agenzia delle entrate nei confronti di una società, sul presupposto che la contribuente fosse una società non operativa, in quanto costituita e gestita al mero fine di assicurare ai soci il godimento dei beni aziendali, rappresentati da aeromobili, immobili e partecipazioni in altre società.

Il giudizio è giunto in dinanzi alla CTR, i cui giudici hanno accolto l’appello dell’Amministrazione finanziaria confermando la disapplicazione della causa di esclusione, consistente nell’attivazione della procedura di concordato preventivo. Ciò in quanto la procedura di attivazione del concordato preventivo aveva avuto inizio solo a seguito della conclusione della verifica da parte dell’Ufficio, che aveva contestato il carattere non operativo della società. Pertanto, sulla base del generale principio di antielusione interno al nostro ordinamento, i giudici hanno ritenuto non opponibile all’Amministrazione finanziaria la causa di esclusione che la società contribuente aveva artatamente concorso a creare.

La società ha impugnato la decisione d’appello lamentando l’operato dei giudici di merito, che hanno ritenuto legittima la predeterminazione presuntiva del reddito sulla base di condotte ascrivibili ai soci (e non alla società accertata). A parere della ricorrente, inoltre, la CTR avrebbe omesso di operare una valutazione in concreto dell’attività svolta dalla contribuente consistente, quale holding di partecipazioni societarie, nella sublocazione di aeromobili e nella compravendita immobiliare. Nel caso di specie, quindi, sarebbe stato oggettivamente impossibile il conseguimento di ricavi in linea con i parametri del “test di operatività”. La Corte di cassazione ha ritenuto fondati i seguenti motivi di doglianza e ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.

In tema di società di comodo, l’art. 1, co. 128 della L. n. 244 del 2007 ha previsto una serie di cause di esclusione, ossia di circostanze fattuali in presenza delle quali il test di operatività può non essere legittimamente effettuato. Per quanto di interesse il test non si applica alle società in stato di fallimento, assoggettate a procedure di liquidazione giudiziaria, di liquidazione coatta amministrativa ed in concordato preventivo.

La controversia in commento, quindi, gira sulla valutazione della concreta operatività imprenditoriale della società contribuente, da cui dipende l’applicabilità della normativa prevista in materia di società di comodo e, quindi, l’opponibilità all’Amministrazione finanziaria della summenzionata deroga. Si premette che il cd. “test di operatività” consiste nel raffronto tra la somma dei ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati in conto economico ai ricavi presunti, calcolati applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società.

Se i componenti dichiarati sono inferiori a quelli presunti si applica una presunzione legale relativa in base alla quale la società si considera “non operativa”. La disciplina prevede, inoltre, la possibilità di presentare istanza di interpello, al fine di chiedere la disapplicazione delle disposizioni antielusive, “in presenza di situazioni oggettive, ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore, che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito”.

A riguardo il Collegio di legittimità ha stabilito “che attraverso tale disciplina si intende disincentivare il fenomeno dell’uso improprio dello strumento societario, utilizzato come involucro per raggiungere scopi, anche di risparmio fiscale, diversi - quale l’amministrazione dei patrimoni personali dei soci - da quelli previsti dal legislatore per tale istituto (cosiddette società senza impresa, o di mero godimento, dunque «di comodo»); «il meccanismo deterrente consiste nel fissare un livello minimo di ricavi e proventi correlato al valore di determinati beni patrimoniali, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società (nel senso ora indicato), con conseguente presunzione di un reddito minimo, stabilito in base a coefficienti medi di redditività dei detti elementi patrimoniali di bilancio”.

Dal lato dell’onere della prova, consistendo il mancato superamento del test una presunzione iuris tantum di inoperatività, spetta al contribuente dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive e specifiche, indipendenti dalla propria volontà, tali da rendere impossibile il raggiungimento della soglia di operatività e del reddito minimo presunto.

Nel caso di specie la causa di esclusione era stata respinta dall’Amministrazione finanziaria perché la situazione di dissesto che aveva condotto la società a chiedere l’attivazione della procedura di concordato preventivo era stata ritenuta artatamente creata dai soci amministratori, che avevano distratto le risorse finanziarie della società accertata. Sulla base di tale valutazione è stata implicitamente desunta la natura di società di comodo della contribuente, ritenuta una società non rappresentativa di “un autonomo centro decisionale, bensì un mero schermo dei soci stessi”.

I giudici di merito, a fronte della prospettazione dei fatti per dimostrare che la società aveva esercitato attività economica e della contrapposta ricostruzione offerta dall’Ufficio finanziario, finalizzata a dimostrare che la società non era operativa, non hanno proceduto ad una adeguata valutazione delle circostanze di fatto addotte dalla ricorrente, pur trattandosi di elementi decisivi per accertare lo svolgimento in concreto, da parte della ricorrente, di una vera e propria attività d’impresa. In particolare:

  • la società disponeva di un rilevante patrimonio immobiliare e di una importante esposizione debitoria nei confronti di istituti bancari che lasciava presumere che il sistema di credito percepiva la società come un vero e proprio operatore economico in grado di remunerare i finanziamenti erogati;
  • i rapporti di finanziamento intrattenuti con le società partecipate integravano esercizio dell’attività di holding;
  • svolgeva attività di assistenza finanziaria e di ricerca dei mezzi finanziari per le sue partecipate, rilasciando in loro favore garanzie fideiussorie.

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