C’è rischio di evasione se le fatture presentate in banca differiscono da quelle registrate in contabilità

La difformità tra le fatture registrate dalla società e quelle presentate in banca al fine di ottenere liquidità legittima l'accertamento presuntivo, in presenza di indizi gravi e precisi di evasione. Lo spiega l'Ordinanza della Corte di Cassazione n. 5616 del 02 marzo 2021.

C'è rischio di evasione se le fatture presentate in banca differiscono da quelle registrate in contabilità

È legittimo l’accertamento presuntivo basato sulla difformità tra le fatture registrate dalla società e quelle presentate in banca al fine di ottenere liquidità in presenza di indizi gravi e precisi di evasione quale, ad esempio, la registrazione di fatture di importo inferiore rispetto a quello risultante dai documenti presentati in banca.

Queste le indicazioni contenute nell’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 5616 del 02 marzo 2021.

La sentenza - Il procedimento ha ad oggetto il ricorso avverso l’avviso di accertamento con cui l’Agenzia dell’entrate ha rideterminato in via presuntiva il reddito della società controllata.

Con l’atto de qua l’Ufficio ha ripreso a tassazione ricavi non contabilizzati rilevando che, al fine di ottenere liquidità da banche mediante l’anticipazione su crediti, la società aveva presentato fatture attive (munite di numerazione, imponibile, imposta, indicazione del cliente) che non trovavano riscontro nella documentazione contabile.

Più precisamente tali documenti non erano supportati da ordini di clienti che giustificassero la loro emissione oppure erano successivi, sicché era escluso che gli stessi potessero essere stati impiegati per conseguire anticipazioni, e/o di importo superiore rispetto alla fattura registrata.

Nel ricorso la società ha sostenuto a proprio discapito che i documenti controllati costituivano mere "fatture pro-forma" predisposte al solo scopo di conseguire dalle banche i finanziamenti necessari alla liquidità aziendale. Tali documenti non erano registrati sui libri contabili, né accompagnavano la merce in dogana, né venivano inviati ai clienti per l’incasso.

La CTR, in linea con la decisione di primo grado, ha respinto l’appello dell’Agenzia delle Entrate rilevando che la mancanza di regolare riscontro tra le fatture pro forma e quelle registrate in contabilità e il differente ammontare tra le fatture complessivamente emesse e quelle realmente contabilizzate non determinavano alcun onere probatorio in capo alla contribuente, essendo al contrario onere dell’Amministrazione finanziaria dimostrare la sussistenza dei presupposti, anche temporali, per l’insorgenza dell’obbligazione tributaria.

Avverso la sentenza l’Agenzia dell’entrate ha proposto ricorso per cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione 39 D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 D.P.R. n. 633 del 1972, per avere la C.T.R. omesso di considerare che la presentazione alle banche di fatture, prive di identico riscontro nella contabilità aziendale, costituiva prova presuntiva circa la corrispondenza degli importi indicati a ricavi e corrispettivi realizzati e non contabilizzati.

La Corte di cassazione, ritenendo fondato il motivo, ha accolto il ricorso dell’Ufficio erariale e cassato con rinvio la sentenza impugnata.

A parere dei giudici di legittimità per affermare il principio per cui la mera emissione di un documento, non avente le caratteristiche formali della fattura, non è sufficiente a far sorgere l’obbligazione tributaria.

A tal fine è necessario che il giudice di merito illustri le ragioni di fatto per ricondurre i documenti posti a base dell’accertamento alla categoria delle "fatture pro-forma" e, cioè, spiegare quali concreti elementi consentivano di qualificarli come privi delle caratteristiche formali delle fatture, ancorché denominati in modo similare.

Una specifica motivazione si manifestava ancor più necessaria in considerazione dell’univoca denominazione di «fatture» che le stesse parti avevano attribuito ai documenti presentati agli istituti bancari, pur divergendo le difese sulle conseguenze tributarie della loro emissione.

La motivazione della sentenza appare lacunosa anche sotto altro profilo, se si considera che l’Ufficio accertatore non ha individuato tutte le fatture (asseritamente proforma) come espressive di ricavi o corrispettivi non contabilizzati.

I verificatori, infatti, hanno individuato solo quelle fatture quelle che non potevano costituire mezzo per ottenere finanziamenti, in quanto predisposte successivamente alla registrazione della "vera" fattura in contabilità, oppure quelle che non trovavano una corrispondente annotazione (effettuata in misura inferiore rispetto alla pro-forma) o un corrispondente ordine di un cliente. Da qui l’accoglimento del ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate.

Corte di Cassazione - Ordinanza numero 5616 del 02 marzo 2021.
È legittimo l’accertamento presuntivo basato sulla difformità tra le fatture registrate dalla società e quelle presentate in banca al fine di ottenere liquidità in presenza di indizi gravi e precisi di evasione quale, ad esempio, la registrazione di fatture di importo inferiore rispetto a quello risultante dai documenti presentati in banca.

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