Rapporto tra evasione fiscale e bancarotta fraudolenta

Focus sul rapporto tra evasione fiscale e bancarotta fraudolenta: si parte dall'analisi di un caso pratico per arrivare a riflessioni di più ampia portata sulla connessione che lega le due fattispecie

Rapporto tra evasione fiscale e bancarotta fraudolenta

In tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose possono consistere anche nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (cfr. tra le molte Cass. 24752/18).

E ancora la Suprema Corte ha chiarito che la stabile e continuativa omissione degli adempimenti fiscali rientra nella nozione di operazioni dolose suscettibili di cagionare il fallimento (così, tra le molte, Cass. 22488/2019).

Da ultimo il Tribunale di Roma, Sez. spec. in materia di imprese, con la Sent., 25 gennaio 2023, n. 1231, ha affermato sul tema rilevanti considerazioni, che possono indurre a qualche riflessione di sistema, anche considerato che, come si può leggere da molti articoli di cronaca, ormai la connessione tra le due fattispecie è all’ordine del giorno nell’ambito di inchieste da parte delle Procure di mezza Italia.

Bancarotta fraudolenta fallimentare: l’analisi di un caso pratico

Nel caso di specie, il Tribunale aveva dichiarato il fallimento di una società. Da accertamenti eseguiti in costanza di procedura concorsuale e dalla Guardia di Finanza, erano emersi plurimi episodi di mala gestio da parte degli amministratori.

In particolare, la Guardia di Finanza aveva avviato una verifica fiscale nei confronti della società poi fallita, all’esito della quale erano stati notificati cinque avvisi di accertamento, essendo emerse gravi irregolarità quali: omesso versamento delle imposte IRAP, IVA, IRES, indebita deduzione di costi, omessa registrazione di fatture, omessa registrazione e dichiarazione dei ricavi, operazioni inesistenti, etc.

Assumeva, pertanto il fallimento che gli amministratori della compagine poi fallita si erano resi gravemente inadempienti per violazioni degli obblighi loro imposti dalla legge, soprattutto di ordine fiscale e contributivo oltre che di natura contabile, con conseguenti responsabilità risarcitorie sia verso la società che verso i creditori.

Il Tribunale sposava tale linea, rilevando che, a mente dell’art. 2392 c.c., gli amministratori devono adempiere ai doveri imposti dalla legge e dell’atto costitutivo con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, laddove tra gli obblighi di diligenza imposti dalla legge rientrano anche quello di corretta gestione e conservazione delle risorse finanziarie per provvedere al pagamento degli obblighi fiscali e tributari, onde evitare l’aggravio delle relative sanzioni e interessi di mora, e, a mente dell’art. 2423 c.c., l’obbligo di redigere il bilancio secondo i crismi di chiarezza, veridicità e correttezza.

Nella specie, non era in dubbio che gli amministratori si fossero resi inadempienti in ordine ai detti obblighi, laddove, anzi, i medesimi convenuti avevano espressamente dedotto di aver in effetti fatturato operazioni inesistenti al fine di ottenere liquidità dagli istituti di credito, aggravando così l’esposizione debitoria della società, soprattutto in relazione alle maggiori sanzioni (ed interessi) applicate dall’Amministrazione finanziaria. Esborsi che sarebbero stati evitati se l’amministratore, utilizzando l’ordinaria diligenza, avesse provveduto regolarmente ai propri obblighi (cfr., Trib. Roma sent. n. 24233/2017).

Il Tribunale rileva poi che sulla quantificazione del danno causato dalla violazione del divieto di prosecuzione in seguito al verificarsi di una causa di scioglimento, il criterio a cui fare riferimento è quello della c.d. differenza dei netti patrimoniali, laddove, con tale criterio, il danno viene calcolato come differenza tra i patrimoni netti individuati nel momento in cui si verifica la causa di scioglimento e nel momento del passaggio alla fase di liquidazione (ovvero alla dichiarazione di fallimento).

In questo modo il metodo adottato rispetta il nesso di causalità tra il comportamento illegittimo e la produzione del danno. Il danno in termini di perdita incrementale netta, infatti, consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione subita dal patrimonio della società per effetto della ritardata liquidazione.

Il fallimento attore riferiva del resto che tale condotta integrava anche la fattispecie di bancarotta fraudolenta distrattiva, avendo avuto la stessa condotta una chiara incidenza causale sul dissesto della società e sul relativo depauperamento del patrimonio della fallita.

A tal proposito il Tribunale rileva che, in tema di responsabilità civile e di richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, quando è prospettato un illecito astrattamente riconducibile a fattispecie penalmente rilevante, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., spetta al giudice accertare, incidenter tantum e secondo la legge penale, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, indipendentemente dalla norma penale cui l’attore riconduce la fattispecie (cfr. ex multis Cass. sent n. 9445/2012).

Peraltro la risarcibilità del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c. e 185 c.p. non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, né occorre una condanna penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente previsto come reato, sicchè la mancanza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all’accertamento ad opera del giudice civile (cfr. ex multis Sent. n. 3371/2020).

Il ruolo degli indici di fraudolenza

Quanto alla astratta configurabilità della fattispecie di bancarotta fraudolenta i giudici evidenziano quindi che la condotta posta in essere dai convenuti appariva in effetti astrattamente riconducibile alla fattispecie di bancarotta patrimoniale.

Senonchè, quanto alla bancarotta fraudolenta per distrazione, l’accertamento dell’elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico deve valorizzare la ricerca di indici di fraudolenza, rinvenibili ad esempio nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, nel rispetto dei canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta pericolosa.

La medesima giurisprudenza ha altresì rammentato che, ai fini della sussistenza del dolo generico, non sono necessari la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori (cfr. ex multis Cass. sent. n. 32219/2013, sent. n. 21846/2014; sent. n. 44933/2011), richiedendosi piuttosto che oggetto di consapevolezza sia, in relazione alla concreta situazione della società, l’incidenza dell’atto distrattivo sulle prospettive di soddisfacimento concorsuale dei creditori (cfr. ex multis Cass. sent. n. 29850/2022), nonché la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Cass. S.U. 22474/2016; Cass. sent. 4710/2020).

Assume inoltre rilievo in ordine ai c.d. indici di fraudolenza il collocarsi del singolo fatto in una sequenza di condotte di spoliazione dell’impresa poi fallita, ovvero in una fase di già conclamata decozione della stessa.

Alla luce dei suesposti rilievi, dovendo il giudice civile, ai soli fini risarcitori, limitarsi a scrutinare se la condotta posta in essere dagli amministratori sia astrattamente ascrivibile alla fattispecie di reato contestata, doveva nella specie ritenersi l’astratta configurabilità della bancarotta patrimoniale di cui all’art. 216, comma 1, L.f., non potendo tuttavia ritenersi provato il concorso ai sensi degli artt. 110 e 223 L.f., in tema di concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione.

Difettava infatti, in tal caso, la prova dell’elemento soggettivo della consapevolezza dei predetti di cagionare un depauperamento della società fallita a danno dei creditori sociali e la prova della concreta ingerenza nella gestione della società.

In ordine alla quantificazione del danno, alla stregua del riferito criterio c.d. della differenza dei netti patrimoniali, pacificamente applicabile all’ipotesi di illegittima prosecuzione di attività, l’ammontare del danno risultava essere dunque pari ad Euro 2.225.156,20.

Rapporto tra evasione fiscale e bancarotta fraudolenta

Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali, in ordine al rapporto tra evasione fiscale e reato di bancarotta fraudolenta, giova anche evidenziare quanto segue.

Un costante orientamento di legittimità, dedicato alla tecnica di autofinanziamento mediante sistematico ricorso all’omissione del pagamento di imposte e contributi, afferma che in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, L. Fall. possono consistere nel mancato versamento dei contributi fiscali previdenziali con carattere di sistematicità (cfr., Cass., n. 15281 del 2017; Cass., n. 12426 del 2014).

In particolare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, L. Fall., attengono infatti alla commissione di abusi di gestione, o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale, riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento, o, comunque, una pluralità di atti coordinati.

Il fallimento determinato da operazioni dolose configura dunque un’ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale e l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura dolosa dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonchè dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare (cfr., Cass., n. 17690 del 18/02/2010; Cass., n. 45672 del 01/10/2015).

Questo sito contribuisce all'audience di Logo Evolution adv Network