Con il disegno di Legge di Bilancio 2026 si è tornati a parlare di stablecoin agganciata all'euro, vediamo di capirci qualcosa in più in questa analisi di Giovanbattista Palumbo
Come affermato in tempi non sospetti da Fabio Panetta, membro del board BCE, per assicurare più concorrenza, più sicurezza e più privacy, l’esigenza di avere una moneta digitale ufficiale europea si fa sempre più pressante.
L’euro digitale è quindi, sostanzialmente, una necessità per il sistema economico e monetario europeo e la sua introduzione sarebbe finalizzata a garantire stabilità e a riaffermare la sovranità monetaria, proprio in un momento in cui la disponibilità di mezzi e strumenti di pagamento digitali è molto ampia.
Verso l’euro digitale, la diffusione dei pagamenti elettronici
Il passaggio chiave sta comunque nel superamento dell’utilizzo del contante, con la sua progressiva riduzione, come strumento di pagamento privilegiato, da parte di consumatori e imprese.
In tale direzione, peraltro, è andato il cosiddetto “Italia cashless”, il piano con cui il governo puntava ad abbattere l’uso del contante e aumentare l’uso dei pagamenti elettronici.
Un programma che prevedeva, tra l’altro, l’introduzione di un super bonus da riconoscersi in relazione alle spese effettuate con strumenti di pagamento tracciabili, soprattutto in specifici settori ad elevato rischio di evasione fiscale.
È evidente che l’obiettivo era ed è quello di contrastare l’evasione fiscale, facendo transitare le transazioni attraverso canali tracciabili, che consentano all’autorità fiscale di monitorare i flussi di denaro e analizzare quelli più sospetti.
In tale ratio rientra dunque anche l’euro digitale.
Data la crescente propensione dei cittadini a utilizzare pagamenti elettronici, l’intento sarebbe quello di offrire loro la possibilità di utilizzare la moneta della banca centrale anche sotto forma digitale, rendendo però allora l’euro digitale veramente per tutti, sia in termini di convenienza sia, soprattutto, in termini di accessibilità.
Per renderlo possibile la BCE sta pertanto lavorando alla costituzione di un nuovo ecosistema finanziario, in cui l’euro digitale, oltre ad avere lo stesso identico valore del contante, sia anche altrettanto comunemente accettato da parte di tutti gli operatori della filiera.
Per riuscirci, oltre ai costi zero, andranno anche risolti i nodi della privacy e della gestione dei dati, laddove, in quanto istituzione pubblica e indipendente, la Bce non ha comunque interesse a monetizzare i dati di pagamento degli utenti e potrebbe trattarli solo nella misura necessaria alle funzioni dell’euro digitale.
Nel processo di cambiamento del mercato monetario, l’euro digitale dovrebbe poi ricoprire un ruolo internazionale per garantire la sovranità monetaria europea, la diffusione dell’euro ad altri mercati e, attraverso l’interoperabilità con le altre Cbdc (Central bank digital currency), la sensibile riduzione di tempi e costi per le transazioni transfrontaliere.
In definitiva, l’esigenza di avere una moneta digitale di Stato si fa sempre più pressante, anche per evitare di perdere porzioni di sovranità monetaria.
Euro digitale e stablecoin
Il tema dell’euro digitale rientra del resto nel più ampio argomento delle cosiddette stablecoin, che mirano a superare quello che ad oggi è il più grande difetto delle criptovalute: la volatilità.
Se la volatilità di una criptovaluta può alimentare la speculazione, e dunque creare un certo interesse attorno a sé, a lungo andare questo ostacola infatti la sua adozione del mondo reale.
Per superare tali criticità, allora, le stablecoin fanno della stabilità la loro ragion d’essere, ancorandosi a risorse “concrete”, come l’oro o il dollaro Usa.
La differenza che salta subito all’occhio tra stablecoin e criptovalute è che la stabilità permette a una stablecoin di essere adottata come mezzo di pagamento.
Per qualsiasi valuta la stabilità è infatti fondamentale per lo scambio di beni e servizi.
E alcuni Stati stanno cominciando a cercare di sfruttarne il potenziale.
Il Venezuela ha per esempio sostituito la propria valuta nazionale, il bolivar, con il nuovo “bolivar sovrano” (o bolivar soberano), collegato alla criptovaluta di Stato, denominata Petro, laddove, proprio per fare fronte all’inflazione incontrollata, si è puntato sullo strumento delle criptovalute, e, per risolverne le forti oscillazioni, non idonee ad assolvere a funzione di riserva stabile di valore, è stato deciso di garantire la nuova criptovaluta con le riserve petrolifere e auree del Paese.
Tre diversi tipi di stablecoin
Esistono comunque tre tipi principali di stablecoin.
Il primo si basa sul fatto che una certa quantità di moneta, avente corso legale, come il dollaro, oppure un determinato bene fisico, come l’oro, viene depositato a garanzia dell’emissione della criptovaluta (vedi, per esempio, stablecoin come Tether, Digix Gold e Goldx).
Nel secondo tipo, il collaterale è invece rappresentato da altre criptovalute. Dato però che, come detto, una delle caratteristiche principali della criptovalute è la volatilità (e dunque la instabilità), per risolvere tale problema la stablecoin viene sovra-garantita, in modo che possa assorbire le eventuali fluttuazioni.
In sostanza, verranno depositati 500 dollari di valore in ethereum per ricevere 100 dollari nella stablecoin di turno (fanno parte di questo tipo criptovalute come Bit Usd, o Dai).
All’ultimo tipo fanno infine riferimento le stablecoin senza garanzie , che si basano sulla fiducia. In pratica, in questi casi, la fornitura della moneta è dettata dal valore sul mercato, grazie ad un meccanismo di pressione al rialzo e al ribasso sul prezzo.
In sostanza, se il prezzo supera un dollaro, l’offerta di moneta aumenta per riportarlo in basso, e quando invece il prezzo è inferiore a un dollaro, l’offerta diminuisce (vedi, come esempio di questo tipo di stablecoin, Basecoin, o Carbon).
Certo l’ottica delle stablecoin, come detto, rappresenta una forzatura rispetto allo spirito “anarchico” che aveva contraddistinto la nascita delle prime criptovalute.
Ma, prima che questione di mercato, l’affermazione di un tale “rivoluzione” digitale sembra essere anche questione culturale.
L’attenzione delle entità statutali o interstatuali si è comunque spostata sulla tecnologia che è alla base del sistema.
I vari Paesi pensano infatti sempre più a come impiegare la blockchain per digitalizzare le valute nazionali e per sfruttare meccanismi inediti di controllo del sistema finanziario.
La Cina si è già dotata di una moneta digitale nazionale: lo e-yuan.
Il vicedirettore della Banca Centrale cinese recentemente ha affermato che, inizialmente, lo yuan digitale (concorrente dell’euro digitale) sostituirà solamente l’aggregato monetario M0, cioè i soldi contanti in circolazione.
L’utilizzo della criptovaluta negli investimenti sarà invece (inizialmente) vietato.
L’introduzione della valuta digitale mira in sostanza a permettere alle autorità cinesi di ridurre in maniera considerevole la portata dell’economia sommersa, laddove comunque le transazioni non dovranno essere anonime.
In tal modo, il criptoyuan aumenterà la trasparenza delle transazioni stesse.
In conclusione, si osserva così una tendenza paradossale.
La criptovaluta che funziona sulla base della blockchain è stata ideata da esponenti del libertarianesimo, in risposta alla crisi del 2008, i cui responsabili sarebbero stati, secondo detto orientamento, proprio le banche centrali dei maggiori Stati e le più grande società finanziarie mondiali.
L’idea è stata semplice: inventare del denaro di cui nessuno potesse avere il monopolio e che potesse essere regolato solamente dal libero mercato.
Ora però la stessa blockchain diventerà uno strumento nelle mani di quegli stessi Stati.
L’ipotesi della Legge di Bilancio 2026
Il primo comma della norma contenuta nella bozza della Legge di Bilancio 2026 prevede la tassazione al ventisei per cento dei token di moneta elettronica.
In particolare, al comma 24 dell’articolo 1 della Legge 207/2024 (la Legge di Bilancio dello scorso anno) viene aggiunto il seguente testo:
Le disposizioni di cui al primo periodo si applicano con l’aliquota del 26 per cento, in luogo di quella ordinaria del 33 per cento, ai redditi diversi e agli altri proventi di cui alla lettera c-sexies) del comma 1 dell’articolo 67 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, derivanti da operazioni di detenzione, cessione o impiego di token di moneta elettronica denominati in euro, di cui all’articolo 3, paragrafo 1, numero 7), del Regolamento (UE) 2023/1114 del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 maggio 2023.
Ai fini del presente comma, per token di moneta elettronica denominati in euro si intendono i token il cui valore è stabilmente ancorato all’euro e i cui fondi di riserva sono detenuti integralmente in attività denominate in euro presso soggetti autorizzati nell’Unione europea.
Non costituisce realizzo di plusvalenza o minusvalenza la mera conversione tra euro e token di moneta elettronica denominati in euro, né il rimborso in euro del relativo valore nominale.
La novità non toccherà la regola introdotta l’anno scorso, di conseguenza Bitcoin, Ethereum, Stablecoin, NTF e altri token resteranno tassati al 33%.
La riduzione all’aliquota del 26%, se confermata dalla versione ufficiale della Legge di Bilancio in fase di approvazione, si applicherà esclusivamente ai token di moneta elettronica denominati in euro.
La nuova regola inizialmente sarà del tutto astratta: oggi in Italia non esistono emittenti nazionali autorizzate che offrano una stablecoin collegata all’euro.
Tuttavia, qualche mese fa un consorzio di nove banche europee, tra cui UniCredit e Banca Sella tra quelle italiane, ha annunciato l’intenzione di lanciarne una nel 2026.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Euro digitale e stablecoin