Non è credibile un costo del venduto superiore ai ricavi dichiarati

In tema di IVA, la circostanza che un'impresa commerciale dichiari per più annualità un volume di affari di molto inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare, da parte dell'Amministrazione, una rettifica della dichiarazione

Non è credibile un costo del venduto superiore ai ricavi dichiarati

Una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo - in difetto - pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi degli artt. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del D.P.R. n. 633 del 1972.

È questo il principio dettato dall’ordinanza della Corte di Cassazione n. 7202/2023.

Antieconomicità, costo del venduto e ricavi dichiarati: analisi di un caso pratico

L’Agenzia delle Entrate, a seguito di controllo nei confronti di una Srl, operante nel settore delle costruzioni, ha emesso avviso di accertamento per l’anno 2006, muovendo una serie di rilievi, tra cui l’omessa contabilizzazione di ricavi per Euro 5.683.594,42 per incoerenza dei prezzi dichiarati dalla società con quelli applicabili in base alla convenzione tra il Comune di (Omissis), nel quale era avvenuta la costruzione di un complesso residenziale di n. 51 villette, e una Spa, proprietaria del terreno, poi ceduto alla Srl.

L’Allora Commissione Tributaria Provinciale ha accolto il ricorso della contribuente. Sentenza confermata in sede di appello, osservando che

“il procedimento penale promosso nei confronti del legale rappresentante della società, per i reati di omessa contabilizzazione e dichiarazione infedele, era stato archiviato con la motivazione che i maggiori elementi positivi di reddito erano stati accertati dall’Ufficio applicando i prezzi medi a metro quadro, praticati nella stessa zona, dalle più conosciute agenzie immobiliari, senza considerare che la costruzione era avvenuta in edilizia convenzionata”

I giudici di secondo grado hanno aggiunto che non era possibile alcun richiamo al valore normale degli immobili perché la costruzione era avvenuta in edilizia convenzionata e, in base all’art. 28 della convenzione stipulata

“il prezzo massimo di prima cessione delle villette era pari ad Euro 1.810 per metro quadro, cosicché sicuramente il prezzo applicabile era inferiore a quello considerato dall’Ufficio nella determinazione dei ricavi, tanto più che, ai sensi dell’art. 18 comma 5 D.P.R. n. 380 del 2001, la pattuizione in violazione dei prezzi stabiliti dalla convenzione stipulate con l’ente locale è nulla per la parte eccedente”

Avverso questa pronunzia propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, deducendo, per quel che qui di specifico ci interessa, violazione e/o falsa applicazione degli artt.39 comma 1 lett. d) e 40 D.P.R. n. 600/1973, 54 comma 5 D.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., perché la CTR aveva valutato gli elementi dedotti dall’Ufficio singolarmente e non nella loro globalità, aveva ritenuto inidoneo ai fini dell’accertamento il dato della antieconomicità evidenziato (costi maggiori dei ricavi), in assenza di valide giustificazioni da parte del contribuente, e aveva considerato come res iudicata il precedente penale.

La tesi della Corte di Cassazione e il principio di antieconomicità ai fini fiscali

Il motivo è fondato:

“Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, una volta contestata dall’erario l’antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poichè assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo - in difetto - pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’amministrazione, ai sensi degli artt. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del D.P.R. n. 633 del 1972. (Cass. n. 21128 del 2021; Cass. n. 6918 del 2013)”

Così, anche in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente

“l’Amministrazione finanziaria può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 633 del 1972, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni (Cass. n. 35713 del 2022; Cass. n. 24578 del 2022)”

Nel caso di specie, il dato dell’antieconomicità

“rappresentato da un costo del venduto superiore ai ricavi dichiarati, che costituiva il più immediato e vistoso segnale di anomalia della condotta economica dell’imprenditore, è stato del tutto trascurato dalla CTR che, sulla scorta di quanto risultante del decreto penale di archiviazione, ha considerato soltanto il tema del valore normale degli immobili”

Invero, osservano i massimi giudici:

“il provvedimento di archiviazione pronunciato in sede penale ex art. 408 c.p.p.. non rientra tra i provvedimento dotati di autorità di cosa giudicata nel processo tributario, giusta disposto degli artt. 654 c.p.p. e 12 della L. 516/82 (Cass. n. 3423 del 2021) e non impedisce che lo stesso fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dal giudice tributario, poiché, a differenza della sentenza pronunciata all’esito del dibattimento, detto decreto ha per presupposto la mancanza di un processo e non dà luogo ad alcuna preclusione, non rientrando nemmeno tra i provvedimenti dotati di autorità di cosa giudicata giusta il disposto dell’art. 654 c.p.p. (Cass. n. 16649 del 2020)”

Il precedente reso in sede penale, quindi, non condizionava né limitava il ragionamento presuntivo che il Giudice tributario avrebbe dovuto svolgere, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ammettendo solo presunzioni gravi, precise e concordanti, laddove il requisito della precisione è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della gravità al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della concordanza, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia - di regola - desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi (Cass. n. 9054 del 2022).

Nel caso di specie, invece, il giudice di appello

“ha trascurato tutti gli altri elementi (non solo l’antieconomicità ma anche, per esempio, la contabilizzazione di finanziamenti infruttiferi dei soci) per concentrarsi soltanto sul confronto tra i prezzi dichiarati e il valore normale, rendendo così un accertamento solo parziale in violazione delle regole che presidiano la materia”

Brevi note fra norma, prassi e giurisprudenza

Il procedimento di accertamento in esame passa attraverso l’articolo 39, comma 1, lett. d), del D.P.R.n.600/73 e 54 del D.P.R.n.633/72, secondo cui

“l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti. Norma che va letta congiuntamente con l’art. 62-sexies, comma 3, del D.L. 30 agosto 1993, n.331, conv. con modif. dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427, in forza del quale gli accertamenti analitici-presuntivi possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta…”

In pratica, la necessità di più elementi indizianti a fondamento delle rettifiche induttive è stata superata normativamente, così che è sufficiente l’esistenza di incongruenze tra il dichiarato e l’accertabile - la cd. antieconomicità -, a legittimare l’Amministrazione finanziaria a superare la regolarità formale delle scritture contabili e a ricostruire induttivamente il reddito, spostando sul contribuente l’onere di prova contraria.

Pertanto, nell’ipotesi in cui l’Ufficio abbia specificato gli indici di inattendibilità dei dati contabili – scarsa redditività ovvero perdite sistemiche - ovvero abbia illustrato i motivi in base ai quali la condotta dell’impresa assuma connotati di antieconomicità, non compatibili con l’andamento della normale gestione caratteristica, atti a dimostrare una astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, l’accertamento fiscale è assistito da presunzione di legittimità, senza che

“null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse (cfr. Cass. Sent.n.13468/2015)”

Nel caso in cui attraverso tale procedimento si pervenga a valori che non risultino convincenti, ovvero assenti ai fini di una adeguata remunerazione dei fattori della produzione impiegati nell’impresa e del conseguimento di un profitto, l’attività ispettiva non può prescindere dalla ricerca dei valori ritenuti maggiormente verosimili.

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