Cessione d’azienda: l’avviamento al test della Cassazione

Gianfranco Antico - Contabilità e impresa

Cessione d'azienda: analizziamo insieme alcuni importanti principi enunciati dalla Cassazione che è recentemente tornata sulla tematica

Cessione d'azienda: l'avviamento al test della Cassazione

Sono tre i principi affermati dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2802/2024, in materia di cessione di azienda:

  • ai fini del calcolo del valore dell’avviamento commerciale della azienda, la percentuale di redditività deve essere parametrata alla media dei ricavi (e non degli utili operativi) accertati, o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi nei tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, applicando di seguito il moltiplicatore previsto dall’art. 2, comma 4, del D.P.R. n. 460/96, criterio avente la funzione di fungere da parametro minimo per il relativo calcolo. Qualora, l’amministrazione finanziaria abbia applicato un coefficiente inferiore a quello di cui sopra, che rappresenta un valore minimale d’avviamento, si presume che la capacità di profitto dell’azienda non sia inferiore a quello cui si perviene mediante la sua applicazione, salva la prova contraria del contribuente;
  • l’inerenza delle passività non sussiste solo allorquando gli investimenti ovvero le passività siano riferibili a operazione idonee a produrre reddito, poiché la riferibilità si relaziona non ai ricavi in sé, ma all’oggetto dell’impresa;
  • la base imponibile va determinata sulla base del valore dei beni o diritti conferiti al netto delle passività e degli oneri “inerenti” al bene o diritto trasferito, con esclusione delle passività che non sono collegate all’oggetto del trasferimento.

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Rideterminazione dell’avviamento: il fatto di specie

Una srl e una s.p.a. impugnavano l’avviso di rettifica e liquidazione relativo alla cessione di ramo d’azienda stipulata in data 2 dicembre 2014, con il quale l’Amministrazione finanziaria determinava il valore dell’avviamento in euro 1.577.425,00, escludendo i debiti relativi al ramo d’azienda euro 1.186.923,00, così calcolando il valore del ramo d’azienda ceduto in euro 1.597.408,00 e la maggior base imponibile in euro 1.583.716,00, eccependo la carenza motivazionale dell’atto impositivo nonché l’illegittima rideterminazione dell’avviamento e del disconoscimento delle passività.

L’avviso di rettifica e liquidazione si fonda sul metodo di determinazione del valore dell’avviamento sulla base dei ricavi medi relativi al ramo d’azienda ceduto nel triennio antecedente la cessione, valore a cui è stato applicato il coefficiente di redditività del 2.7 per cento tratta dal database RADAR, determinato sulla base della redditività di “aziende svolgenti la medesima attività economica della cedente (spedizioni…) e omogene tra loro sulla base di altri indicatori, quali la ripartyizione territoriale”.

La CTP competente rigettava il ricorso mentre la CTR accoglieva parzialmente l’appello della società limitatamente al disconoscimento delle passività pari ad euro 664.000 (debiti verso fornitori) in quanto risultanti dalle scritture contabili dell’ente, confermando per il resto la pronuncia di primo grado.

Da qui il ricorso delle società in cassazione.

Il pensiero degli Ermellini

La Corte, nella lunga e articolata pronuncia, affronta tutta una serie di questioni che meritano di essere sintetizzate ed evidenziate per comparti.

L’avviamento

L’avviamento viene identificato e descritto in termini di qualità intrinseca immateriale dell’azienda, di formazione plurifattoriale; qualità che di solito si concreta nel maggior valore che il complesso aziendale, unitariamente considerato, presenta rispetto alla somma dei valori di mercato dei beni che lo compongono.

Maggior valore:

“a sua volta correlato alla capacità di profitto di un’attività produttiva, ossia quella attitudine che consente ad un complesso aziendale di conseguire risultati ecomici diversi (ed, in ipotesi, maggiori) di quelli raggiungibili attraverso l’utilizzazione isolata dei singoli elementi che la compongono.”

Fermo restando che la sussistenza ed entità economica dell’avviamento costituiscono questioni di fatto devolute al giudice di merito, la Corte richiama una serie di precedenti pronunce ove si è specificato che “l’esistenza di un avviamento incrementativo del valore dell’azienda trasferita ben può coesistere con la presenza di perdite di esercizio negli anni immediatamente precedenti o successivi al trasferimento stesso” e che tale base imponibile può essere determinata non solo (in assenza di avviamento) in forza del “metodo patrimoniale semplice”, dato dalla somma di attività e passività patrimoniali, ma anche (in presenza di avviamento) in forza del “metodo patrimoniale complesso” che, integrando il primo, valorizza tutti i fattori che comportano plusvalenza da beni immateriali costituenti, nel loro complesso, l’avviamento stesso (Cass.9075/15; Cass. del 17.01.2018, n. 979; Cass. del 20/03/2019, n. 7750; Cass. del 14/02/2022, n. 4732).

Inoltre, si è già avuto modo di osservare che (Cass. del 4.11.2015, n. 22503; Cass. del 23.06.2020, n. 12305):

“il criterio del canone capitalizzato si rileva plausibile perché il canone è la contropartita che la parte poi divenuta cedente ha richiesto a fronte della capacità reddituale rinunciata ed è il costo che la cessionaria paga in ragione della redditività che si attende di ritrarre dall’azienda.”

Sempre in sede di legittimità è stato chiarito che i criteri per la determinazione del valore di avviamento di un’azienda, fissati dall’art. 2 del regolamento reso con il D.P.R. n. 460 del 1996 (abrogato dall’art. 17 del d.lgs 19 giugno 1997, n. 218), hanno la funzione di fornire “indicazioni minime” cui l’Amministrazione finanziaria deve attenersi nella procedura transattiva che conduce ad un accertamento con adesione:

“se, infatti, è possibile che tale accertamento si realizzi per valori superiori a quelli indicati dall’art. 2 cit., è comunque ovvio che il contribuente vi aderisca quando esso si attesti su un importo inferiore a quello che potrebbe legittimamente emergere con autonomo accertamento ordinario e nel successivo contenzioso; pertanto, se ai detti criteri può attribuirsi un qualche rilievo indiziario, esso è nel senso che il valore effettivo non è inferiore a quello cui si perviene mediante la loro applicazione, con la conseguenza che l’Amministrazione non è tenuta a spiegare i motivi per cui ritiene eventualmente incongrui nella specie i criteri in questione. Va riconosciuto, difatti, carattere presuntivo nel senso che l’effettivo valore di accertamento non sia inferiore a quello cui si perviene mediante la loro applicazione (Cass. n. 16705 del 2007, Cass. n. 3505 del 2006, Cass. n. 613 del 2006; Cass. n. 20280 del 2008).”

Per gli Ermellini, i criteri di cui all’art. 2 d.P.R. 31 luglio 1996, n. 460 determinano, dunque:

“valori minimali d’avviamento in funzione dell’accertamento con adesione, sicché la loro applicazione integra un indizio a favore dell’amministrazione (Cass. 27 luglio 2007, n. 16705; Cass. Sez. 5, n. 613 del 2006, Cass. Sez. 5, n. 9583 del 2016), tanto che questa può impiegare un criterio diverso solo dando conto della maggiore affidabilità specifica (Cass. del 23/06/2020, n.12305; Cass. del 17/07/2018, n. 18941; Cass. del 07/04/2017, n. 9089; Cass. 27 marzo 2012, n. 4931).”

Pertanto, era onere della società dimostrare che, a fronte degli indizi a favore dell’amministrazione, il coefficiente di capitalizzazione inferiore a tre (coefficiente inferiore a quello indicato dal d.l. abrogato) non poteva essere applicata all’azienda ceduta per peculiari situazioni dell’azienda medesima, nemmeno allegate dalla ricorrente. Onere processuale a cui la società contribuente non ha ottemperato.

Peraltro, nella specie, la CTR ha compiutamente argomentato circa l’appropriata valutazione effettuata dall’Ufficio erariale, in riferimento alla attitudine dell’azienda a produrre ricavi, indicando nell’atto opposto i criteri sulla base dei quali è stato stimato l’avviamento.

Il principio di diritto affermato:

“ai fini del calcolo del valore dell’avviamento commerciale della azienda, in virtù del combinato disposto degli artt. 51 del d.P.R. n. 131 del 1986, e 2, comma 4, del d.P.R. n. 460 del 1996, la percentuale di redditività deve essere parametrata alla media dei ricavi (e non degli utili operativi) accertati, o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi nei tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, applicando di seguito il moltiplicatore previsto dal detto art. 2, comma 4, criterio avente la funzione di fungere da parametro minimo per il relativo calcolo. Qualora, l’amministrazione finanziaria abbia applicato un coefficiente inferiore a quello di cui al cit. art. 2, comma 4, che rappresenta un valore minimale d’avviamento, si presume che la capacità di profitto dell’azienda non sia inferiore a quello cui si perviene mediante la sua applicazione, salva la prova contraria del contribuente.”

Il valore dell’azienda

Il valore dell’azienda si determina in base alla somma dei valori delle “attività”, ovverosia dei valori dei beni materiali e dei beni immateriali compreso l’avviamento, sottraendo le passività che risultano dalle scritture contabili obbligatorie e da atti aventi data certa.

Coerentemente con tale ricostruzione, per i giudici di Piazza Cavour:

“non sono deducibili le passività che l’alienante si sia impegnato espressamente ad estinguere, in quanto le stesse evidentemente restano estranee al compendio aziendale ceduto e possono eventualmente incidere sul prezzo del bene oggetto della cessione.”

I debiti

In ordine ai debiti, la Corte richiama la sentenza di Cassazione n. 10218/2016, la quale nel limitare la deducibilità alle “passività inerenti” in sede di controllo dell’ufficio ai sensi del cit. art. 51 comma 4, ritiene che per i debiti estranei all’azienda, pur risultanti da libri contabili obbligatori, la responsabilità dell’acquirente ex art. 2560 comma 2 cod. civ. non possa che:

“configurare un’ipotesi sostanzialmente riconducibile all’accollo da parte del cessionario del debito del cedente…. Senonché tale accollo non rappresenta che una modalità di determinazione e corresponsione del prezzo di acquisto, così come concordato in ragione dell’effettivo valore attribuito dalle parti all’azienda; il quale dovrà pertanto essere individuato, ai fini dell’imposta di registro, non al netto, ma al lordo della passività non inerente (Cass. n. 12215/2008).”

Ebbene, l’esclusione dei debiti, in particolare, verso fornitori e verso corrispondenti, che l’ufficio intende operare in questa sede alla luce della loro “non inerenza all’attività aziendale” risulta circostanza allegata ex novo sia rispetto alle motivazione dell’atto impositivo opposto sia rispetto alle difese svolte nel giudizio di merito.

Il caso di specie: il pensiero della Cassazione

Nel caso di specie, osservano i massimi giudici, l’ufficio ha disconosciuto l’effettività del debito ceduto verso le banche, assumendone, nella parte conclusiva, la non inerenza all’azienda ceduta, tanto da qualificarlo come accollo di debiti, affermando tuttavia, che trattasi di operazioni relative alla gestione dell’azienda ceduta ed enunciando, peraltro, quale premessa applicabile alla valutazione del passivo in genere, il principio, che non trova riscontro nella normativa che disciplina le cessioni delle aziende, che il passivo deve trovare riscontro nell’attivo.

L’affermazione “che segue l’accertata inerenza del debito verso gli istituti di credito, per cui dette operazioni non potevano essere considerate deducibili in quanto non inerenti, contraddice la premessa dell’avviso, laddove l’ufficio ha verificato che i debiti, invece, risultavano correlati all’attività aziendale e relativi ai conti intestati alla società cedente”.

In altri termini:

“la non inerenza dei debiti verso le banche non appare elemento inferibile con certezza dall’atto impositivo opposto, ancorché confermato dalla CTR che si è limitata ad aderire alla tesi ambigua della non inerenza di dette passività, smentita dalla rilevazione da parte dello stesso Ufficio che le operazioni relative all’assunzione di detti debiti concernevano l’attività aziendale ed erano riconducibili ai conti correnti intestati all’azienda cedente.”

Quanto alle altre passività verso fornitori escluse perché eccedenti l’attivo “il d.P.R. 131/1986 non individua l’eccedenza quale parametro per calcolare o meno le passività nella base imponibile, determinando la base imponibile solo sul criterio della inerenza all’attività aziendale delle passività”.

Per la Corte:

“l’atto impositivo opposto - che si fonda sulla asimmetria numerica tra poste dell’attivo e la posta del passivo relativa ai debiti verso banche e verso fornitori - non risulta fondata su alcun coerente ragionamento argomentativo; l’accertamento operato dall’ufficio e confermato dai giudici di secondo grado consiste in realtà in un disconoscimento di una parte di una posta passiva rispetto all’attivo. Sennonchè, detta apparente disarmonia, che in realtà non viola alcun criterio ragionieristico o legale, non esclude l’inerenza dei debiti, qualunque valore ad essa voglia attribuirsi (cfr. da ultimo Cass., ord. n. 450 del 2018), né l’inerenza sussiste solo allorquando gli investimenti ovvero le passività siano riferibili a operazione idonee a produrre reddito, poiché la riferibilità si relaziona non ai ricavi in sé, ma all’oggetto dell’impresa (costante in tal senso la giurisprudenza, anche se con riferimento all’inerenza dei costi: Cass. 12730/2018; Cass. n. 10269/2017; Cass. n. 3746/2015; Cass. n. 21184/2014; Cass. n. 7701/2013).”

Diverso sarebbe stato se i giudici di appello avessero escluso l’inerenza delle passività in quanto le perdite erano state originate da investimenti o operazioni estranei all’attività imprenditoriale della società ovvero avessero illustrato le ragioni per le quali hanno ritenuto che le poste passive (costituite dalle perdite da investimenti) non avessero alcuna correlazione con l’attività aziendale e non fossero pertanto inerenti all’azienda ceduta, perché non funzionalmente né direttamente connesse ad esso.

Tant’è che Cass. n. 979/2018, ha evidenziato, sebbene con riferimento al valore dell’avviamento, come dall’articolo 51 del D.P.R.n.131/86:

“non possa trarsi alcun decisivo elemento per affermare che l’avviamento incida sul valore dell’azienda trasferita solo se, ed in quanto, di segno positivo. Al contrario, essendo la norma finalizzata a garantire che l’imposta di registro venga applicata su una base imponibile il più possibile conforme al valore dell’azienda in condizioni di libero mercato (chè anche in ciò si attua, e certo non ultimo, il principio di capacità contributiva), si deve ritenere che in essa trovi rilevanza anche quell’avviamento che - avendo segno negativo - sia dalle parti computato a riduzione del prezzo di cessione. Il quale risulterà in tal maniera inferiore - senza con ciò necessariamente rappresentare un valore non rispondente alla realtà ma, anzi, proprio per accostarsi alla più corretta valorizzazione di mercato - alla mera sommatoria algebrica di valore dei cespiti patrimoniali attivi e passivi costituenti l’azienda ceduta.”

Dirimente:

“è la circostanza che l’articolo 51, 4 comma cit., preveda, ai fini della stima del valore dell’azienda, la decurtazione delle passività già formatesi, e come tali risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa (salvo impegno di estinzione dell’alienante). Ciò perché, una cosa sono le passività già prodottesi, rilevanti quali componenti patrimoniali negative incluse nella sommatoria di valore delle singole poste, ed altra le perdite future; invece rilevanti, sul piano tipicamente proiettivo dell’avviamento, per giustificare la pattuizione di un prezzo di cessione collimante con il valore venale, ancorchè inferiore alla somma algebrica delle singole componenti aziendali, comprese le passività già conclamate.”

Vanno dunque affermati i seguenti principi secondo i quali:

  • “l’inerenza delle passività non sussiste solo allorquando gli investimenti ovvero le passività siano riferibili a operazione idonee a produrre reddito, poiché la riferibilità si relaziona non ai ricavi in sé, ma all’oggetto dell’impresa”;
  • “l’art. 50 del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, interpretato alla luce della disciplina comunitaria di cui costituisce attuazione (il riferimento è alla Direttiva n. 69/335/CEE del Consiglio del 17 luglio 1969, ma è estensibile alla Direttiva n. 08/7/CE del Consiglio del 12 febbraio 2008, che costituisce “rifusione” della precedente e delle sue modificazioni), impone che la base imponibile vada determinata sulla base del valore dei beni o diritti conferiti al netto delle passività e degli oneri «inerenti» al bene o diritto trasferito, con esclusione delle passività che non sono collegate all’oggetto del trasferimento.”

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