L’affitto di immobili a canoni pieni a soci e parenti

Gianfranco Antico - Dichiarazione dei redditi

I maggiori ricavi derivanti dai contratti di locazione di immobili a soci e parenti, a canoni inferiori rispetto a quelli di mercato, devono essere tassati

L'affitto di immobili a canoni pieni a soci e parenti

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6198/2024, ha ritenuto legittima la ripresa a tassazione di maggiori ricavi derivanti dalla locazione di immobili di proprietà della società ai soci e parenti o affini dei soci, a canoni inferiori a quelli di mercato, avuto riguardo alla consistenza degli immobili, alla natura di lusso degli stessi e al numero complessivo dei vani.

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Maggiori ricavi da contratti di locazione di immobili a socie e parenti: il fatto di specie

L’Agenzia delle Entrate, rilevato che la dichiarazione dei redditi presentata da una s.r.l., per l’anno 2006, non risultava congrua con gli studi di settore, invitava la contribuente alla produzione presso l’Ufficio della necessaria documentazione.

All’esito del contraddittorio, l’Agenzia emetteva, ai sensi degli artt. 41bis del d.P.R. n. 600/73 e 54, comma 5, del d.P.R. n. 633/72, un avviso di accertamento ai fini Ires, Irap e Iva, con il quale contestava alla società, per quel che ci interessa in questa sede, maggiori ricavi non dichiarati in relazione a contratti di locazione immobiliare.

Avverso tale avviso la società proponeva ricorso dinanzi alla CTP, che lo accoglieva per violazione dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000.

Sentenza ribaltata in appello, dove non veniva ravvisa la violazione dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000. Inoltre, quanto al rilievo concernente la ripresa di maggiori ricavi derivanti dalla locazione di immobili di proprietà della società ai soci e parenti o affini dei soci, a canoni inferiori a quelli di mercato, la contestazione appariva “adeguatamente provata” atteso che:

“avuto riguardo alla consistenza degli immobili, alla natura di lusso degli stessi e al numero complessivo dei vani, il canone di locazione applicato risultava notevolmente inferiore alle quotazioni OMI anche relative ad immobili con caratteristiche inferiori. Per un immobile la comparazione era stata fatta in relazione al canone pagato alla contribuente da altra società terza per un appartamento situato nello stesso immobile; la ripresa era legittima anche tenendo conto di quanto dedotto dalla società in ordine alla mancata locazione, nell’anno di verifica, di un immobile in quanto in ristrutturazione; sotto questo profilo la contribuente non aveva dedotto alcunché né nel ricorso né in sede di gravame.”

Avverso la suddetta sentenza la società propone ricorso per cassazione, contestando la sentenza di appello per avere la CTR:

“ritenuto legittima la ripresa di maggiori ricavi derivanti dall’applicazione di canoni di locazione inferiori a quelli di mercato, facendo riferimento a presunte caratteristiche degli immobili di proprietà della società, sfornite di ogni supporto probatorio, ai valori OMI - costituenti di per sé elementi insufficienti a giustificare una rettifica in contrasto con le risultanze contabili – in assenza di alcuna specifica indicazione dei beni immobili presi a termine di raffronto. Da qui, ad avviso della ricorrente, la violazione dei principi in tema di distribuzione dell’onere probatorio, non avendo l’Amministrazione in alcun modo provato la contestazione dei maggiori ricavi nei confronti della società.”

Peraltro, secondo la ricorrente, il giudice di appello nel ritenere “il canone di locazione applicato notevolmente inferiore alle quotazioni OMI anche relative ad immobili di caratteristiche inferiori” avrebbe omesso di considerare la specifica doglianza sollevata dalla contribuente nel ricorso introduttivo “rispetto a non meglio precisati indici di mercato che non sono mai stati portati a conoscenza del contribuente”.

Il pensiero degli Ermellini

Prima di procedere ad esaminare il motivo di impugnazione, la Corte ricorda la differenza tra accertamento analitico-induttivo e quello mediante gli studi di settore nel senso che:

“con il primo sistema analitico-induttivo, la determinazione del reddito è effettuata nell’ambito delle stesse risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva solo di singoli elementi, dei quali risulta provata aliunde (cioè mediante elementi inferenziali esterni alla contabilità) la mancanza o l’inesattezza.”

Tale metodo di accertamento presuppone, diversamente da quello induttivo c.d. “puro”, che la documentazione contabile sia nel complesso attendibile. Pertanto, in tema di rettifica dei redditi d’impresa mediante accertamento analitico induttivo, la ricostruzione fondata sulle presunzioni semplici, di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, non ha ad oggetto il reddito nella sua totalità, ma singoli elementi attivi e passivi (Sez. 5, Ordinanza n. 7025 del 21/03/2018).

L’accertamento basato sugli studi di settore ha, invece, carattere presuntivo e consente all’Amministrazione una ricostruzione complessiva in presenza di gravi incongruenze tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto avrebbe dovuto essere dichiarato in rapporto alle condizioni e alle caratteristiche dell’attività svolta (Cass. n. 15344/2019).

Tuttavia, osservano i massimi giudici, il dato che l’accertamento sia “basato” sullo studio di settore non esclude che esso possa trovare anche altre giustificazioni come, ad esempio, riscontrate irregolarità contabili o la ritenuta antieconomicità della gestione aziendale.

“Un accertamento tributario può dirsi basato su uno studio di settore, però, sol quando trovi in esso il suo fondamento prevalente. Tanto non si verifica quando, ad esempio, mediante l’utilizzo degli studi di settore siano emerse incongruenze nella contabilità di impresa che abbiano indotto l’Ente accertatore ad approfondire l’analisi, riscoprendo altri, e prevalenti, indici rivelatori dell’esistenza di una operatività economica non dichiarata, raccogliendo l’Amministrazione finanziaria elementi gravi, precisi e concordanti, posti a fondamento dell’accertamento tributario (cfr. Cass. sez.V, n. 15344 del 2019; n. 31814 del 2019).”

Nel caso di specie:

“sebbene l’attività di controllo fosse iniziata avuto riguardo ad una riscontrata incongruità della dichiarazione dei redditi presentata per l’anno 2006 con gli studi di settore, a seguito dell’instaurazione del contraddittorio, emergevano una serie di elementi presuntivi di un maggior reddito che conducevano l’Ufficio ad emettere l’avviso di accertamento in questione, ai sensi degli artt. 41-bis del d.P.R. n. 600/73 e 54, comma 5, del d.P.R. n. 633/72.”

È stato da tempo chiarito che (ex multis: Cass. n. 8812 del 2021; Cass., sez. 5, n. 33508 del 2018; n. 20060 del 2014):

“l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con quale il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorché di rilevante importo, è consentito, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. del 29/09/1973, n. 600, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata.”

Egualmente, in materia di IVA, è stato soggiunto che (cfr., Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 26036 del 30/12/2015, Rv. 638202-01; eadem, Sez. 5. Ordinanza n. 25217 del 11/101/2018; n. 32624 del 2019):

“l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni.”

La CTR:

“conformemente alla giurisprudenza di questa Corte (formatasi in tema di accertamento di un maggior reddito derivante dalla cessione di beni immobili v. ex plurimis, Cass. n. 23379 del 2019; n. 2155 del 2019, n. 13992 del 2019, Cass. n. 11439 del 2018, n. 9474 del 2017; Cass. n. 26487 del 2016; n. 24054 del 2014) ha ritenuto legittimo l’accertamento analitico-induttivo di maggiori ricavi derivanti dall’applicazione di prezzi di locazione ai propri immobili inferiori a quelli di mercato facendo riferimento, oltre che allo scostamento notevole tra i canoni praticati e i valori OMI, anche alle specifiche caratteristiche degli immobili stimati – con un apprezzamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità - di notevole consistenza (compendio cielo terra; attico e superattico; superficie rilevante) e di categoria di lusso, raffrontati, sotto il profilo delle quotazioni OMI, anche con immobili di caratteristiche inferiori nonchè alla categoria dei locatari (soci o parenti e affini dei soci medesimi).”

Inoltre, per un immobile la comparazione è stata effettuata in relazione al canone pagato alla contribuente da altra società terza per un appartamento situato nello stesso immobile.

Essendo poi l’accertamento basato anche sulla emersa non congruità della società rispetto all’applicazione degli studi di settore, la CTR ha ritenuto che “l’incongruità con lo studio di settore appariva confermata anche tenendo conto di quanto dedotto dalla parte circa la mancata locazione nell’anno di verifica dell’immobile sub ……. in quanto in ristrutturazione”.

Peraltro:

“la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, e non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (tra le altre, Cass. n. 571 del 2017; n. 19064 del 2006, n. 15107 del 2013). Nella specie, invece, proprio un’indebita valutazione il ricorrente intende sostenere senza che, tuttavia, per quanto appena ricordato, possa ritenersi violato l’art. 2697 c.c.”

Maggiori ricavi e comportamento antieconomico: la questione giurisprudenziale

L’attività ispettiva può essere condotta con il metodo analitico-induttivo (art.39, comma 1, lett.d), del D.P.R.n.600/73 e 54, del D.P.R.n.633/73), strumento che consente agli organi di controllo e di accertamento di non considerare, in tutto o in parte, le risultanze delle scritture contabili, potendo utilizzare dati ed elementi acquisiti altrimenti, senza che sia necessario dimostrare previamente l’inattendibilità dell’apparato contabile, ovvero la sua irregolarità formale.

In sede giurisprudenziale, la legittimità di detto accertamento, definito, in gergo, analitico, con posta induttiva sui ricavi, è stata avallata pur in presenza di una contabilità formalmente tenuta, poiché la norma presuppone la sussistenza di scritture regolarmente tenute e, comunque contestabili sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che mettono in dubbio la fedeltà dell’impianto contabile, così che l’inattendibilità nel suo complesso sposta sul contribuente l’onere della prova (Cfr. Cass. n. 28713 del 2017; Cass. n. 16119 del 2017; Cass. n. 26036 del 2015; Cass. n. 7871 del 2012).

Nell’ambito delle imposte sui redditi, la valutazione di antieconomicità, ossia dell’evidente incongruità dell’operazione, legittima e fonda il potere dell’Amministrazione finanziaria di accertamento ex art.39, primo comma, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, in base al principio secondo cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti, sicché le condotte improntate all’eccessività di componenti negativi o all’immotivata compressione di componenti positivi di reddito sono rivelatrici di un occultamento di capacità contributiva e la spesa, in realtà, non trova giustificazione nell’esercizio dell’attività d’impresa.

Se è vero che le scelte economiche dell’imprenditore sono normalmente insindacabili, in presenza di un comportamento antieconomico dell’imprenditore, è lecito dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate, con la conseguenza che l’onere della prova si sposta sul contribuente, che deve dimostrare la ragionevolezza economica delle operazioni.

Non si può escludere, certo, né che l’imprenditore compia errori di valutazione, né che considerazioni di strategia generale lo inducano a compiere operazioni di per sé antieconomiche in vista di benefici su altri fronti, ma occorre in tal caso dimostrare che le varie operazioni rispondano, almeno nelle intenzioni di chi le ponga in essere, a criteri di logica economica, sia pure intesa in senso ampio (Cfr. Corte di Cassazione, sentenze nn. 417 e 418, depositate l’11 gennaio 2008).

La valutazione della antieconomicità può essere effettuata in presenza di validi elementi probatori, alla cui individuazione si sta dedicando da tempo la Corte di Cassazione, che sta esaminando i comportamenti e le decisioni degli Uffici (cfr. Cass. ord. n. 27671/2019, secondo cui è idonea ad integrare gli estremi della gravità, precisione e concordanza, che legittima l’antieconomicità contestata, la concessione di autovetture in noleggio a familiari, a prezzi inferiori ai costi sostenuti, indice di un comportamento finalizzato a sfuggire alle disposizioni sul redditometro. La pronuncia, nel confermare l’orientamento già espresso da precedenti sentenze di legittimità secondo cui, a fronte della presunzione iuris tantum derivante dalla antieconomicità, noleggi di autovetture a familiari, con costi relativi a canoni di leasing, spese di manutenzione e altre spese inerenti l’utilizzo dei beni in locazione finanziaria superiore ai componenti positivi, grava sul contribuente l’onere della prova contraria, ha ritenuto, nel caso di specie, corretto l’operato della CTR che ha lavorato gli elementi indiziari assunti in sede di controllo, valutandoli in forza della condotta antieconomica sopra descritta, rilevando la carenza di attività imprenditoriale vera e propria).

Pertanto, i comportamenti assolutamente contrari ai canoni dell’economia, in contrasto con il buon senso e con il criterio della ragionevolezza, che il contribuente non spieghi in alcun modo, per poter essere giustificati dal giudice di merito, devono essere motivati con argomenti validi che consentano di ritenere che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie.

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