Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: le ragioni del sì e del no al referendum sul Jobs Act

Ginevra Franzoni - Leggi e prassi

Il referendum dell'8 e 9 giugno propone di abrogare il contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act nel 2015 e di ripristinare le tutele previste dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, inclusa la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo

Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: le ragioni del sì e del no al referendum sul Jobs Act

L’8 e 9 giugno 2025 i cittadini italiani saranno chiamati a votare su cinque quesiti referendari.

Tra questi, uno riguarda direttamente il mondo del lavoro: chiede di abrogare il decreto legislativo n. 23/2015, attuativo del Jobs Act, che ha riformato profondamente la disciplina dei licenziamenti, sostituendo la storica tutela reintegratoria dell’articolo 18 con un meccanismo principalmente economico.

L’obiettivo del referendum è il ripristino delle tutele precedenti per i lavoratori licenziati senza giusta causa o giustificato motivo.

Il referendum chiede, in sostanza, di eliminare la disciplina del Jobs Act per tornare a un regime in cui la reintegrazione nel posto di lavoro, in caso di licenziamento illegittimo, sia nuovamente una possibilità concreta, e non più un’eccezione.

Se il “” dovesse prevalere, verrebbero meno le norme attualmente in vigore per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.

La disciplina tornerebbe quella prevista dalla legge Fornero del 2012, che a sua volta aveva modificato, ma non cancellato, l’impianto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Un’analisi delle regole previste prima e dopo la riforma, per capire su cosa saremo chiamati a votare.

Articolo 18: cosa ha cambiato il Jobs Act nel 2015

Con il decreto legislativo n. 23/2015, entrato in vigore il 7 marzo 2015, è stato introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, applicabile ai nuovi assunti. La riforma ha ridefinito le tutele in caso di licenziamento illegittimo, distinguendo il trattamento riservato ai lavoratori assunti prima e dopo tale data.

Nei casi di licenziamento discriminatorio, nullo (ad esempio per violazione di norme costituzionali o in materia di maternità), comunicato oralmente o connesso alla disabilità fisica o psichica del lavoratore non giustificata, la legge prevede:

  • reintegrazione obbligatoria nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formale del licenziamento;
  • risarcimento del danno pari alla retribuzione dal giorno del licenziamento fino alla reintegrazione, con un minimo garantito di 5 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali;
  • racoltà del lavoratore di optare, entro 30 giorni dalla sentenza, per un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, rinunciando così alla reintegrazione.

Nei casi di licenziamento dichiarato illegittimo ma non rientrante nelle ipotesi di nullità:

La reintegrazione è esclusa, fatta eccezione per il caso in cui il fatto materiale contestato al lavoratore sia manifestamente insussistente.

In questo caso è previsto:

  • reintegro nel posto di lavoro;
  • risarcimento fino a un massimo di 12 mensilità e versamento dei contributi.

Negli altri casi, è prevista una tutela economica tramite un’indennità compresa tra 6 e 36 mensilità, stabilita dal giudice in base a criteri come anzianità, età, condizioni personali e mercato del lavoro locale. La precedente regola automatica di “2 mensilità per anno di servizio” (con minimi e massimi) è stata dichiarata incostituzionale e superata.

Se il licenziamento presenta vizi di forma o di procedura (ad esempio, mancanza di comunicazione scritta o violazione dell’iter previsto):

  • il rapporto si intende risolto;
  • il datore è condannato a corrispondere un’indennità compresa tra 2 e 12 mensilità;

Il datore ha la possibilità di revocare il licenziamento entro 15 giorni dall’impugnazione del lavoratore: in tal caso, il rapporto di lavoro prosegue senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel frattempo.

Per evitare il contenzioso giudiziario, il datore può formulare un’offerta economica compresa tra 3 e 27 mensilità. Se il lavoratore accetta, il rapporto si estingue e l’impugnazione del licenziamento non ha più effetto

Nonostante queste modifiche, il sistema continua a prevedere la tutela economica come regola generale, rendendo la reintegrazione un’eccezione.

Cosa prevedeva l’articolo 18 prima del 7 marzo 2015

Fino al 6 marzo 2015, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge n. 300 del 1970), così come modificato dalla riforma Fornero (legge n. 92 del 2012), disciplinava le conseguenze del licenziamento illegittimo nei confronti dei lavoratori assunti in imprese con più di 15 dipendenti.

Il sistema introdotto dalla legge Fornero si basava su una distinzione tra diverse tipologie di illegittimità, con conseguenti livelli di tutela graduati.

In particolare, erano previste le seguenti misure:

  • reintegrazione piena nel posto di lavoro, accompagnata da un risarcimento integrale, nei casi di licenziamento discriminatorio, nullo (ad esempio per violazione di norme su maternità o matrimonio) o intimato in forma orale.
  • reintegrazione attenuata, con corresponsione di un’indennità risarcitoria fino a un massimo di 12 mensilità, nei casi in cui il fatto materiale alla base del licenziamento disciplinare risultasse manifestamente insussistente, oppure quando il contratto collettivo applicabile prevedesse, per quella condotta, una sanzione conservativa.
  • tutela esclusivamente economica, con riconoscimento di un’indennità compresa tra 12 e 24 mensilità, in tutti i casi di licenziamento illegittimo ma fondato su un fatto effettivamente accaduto, sebbene inidoneo a giustificare il licenziamento.
  • risarcimento economico ridotto, da 6 a 12 mensilità, per licenziamenti affetti da vizi meramente procedurali o formali, come ad esempio la violazione della procedura disciplinare o l’omessa comunicazione scritta del recesso.
  • reintegrazione anche nei licenziamenti collettivi, qualora il giudice avesse accertato la violazione dei criteri di scelta previsti dalla legge o dai contratti collettivi.

Questo assetto normativo, sebbene più flessibile rispetto alla versione originaria dell’articolo 18, manteneva ancora al centro dell’ordinamento la reintegrazione come strumento di tutela in presenza di gravi vizi sostanziali del licenziamento.

Due modelli a confronto, una scelta alle urne

Il referendum dell’8 e 9 giugno 2025 chiama gli elettori a esprimersi su due differenti approcci alla tutela del lavoratore in caso di licenziamento.

Da un lato, il sistema introdotto dal decreto legislativo n. 23 del 2015, che limita la possibilità di reintegro e prevede un’indennità economica in relazione all’anzianità di servizio.

Dall’altro, il modello precedente, riformato dalla legge Fornero nel 2012, che mantiene la possibilità di reintegrazione in una gamma più ampia di casi di licenziamento ritenuti illegittimi.

L’eventuale abrogazione del Jobs Act riporterebbe in vigore la disciplina che precedeva il 7 marzo 2015, estendendola anche ai lavoratori assunti dopo quella data.

La scelta, dunque, riguarda quale assetto normativo applicare per il futuro: un modello centrato principalmente su un risarcimento economico, o un sistema che include anche la possibilità di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

Si vota domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025.

I seggi saranno aperti dalle 7:00 alle 23:00 domenica e dalle 7:00 alle 15:00 lunedì. Per la validità del referendum è richiesto il raggiungimento del quorum, pari al 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto.

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