Profili risarcitori della mala gestio degli amministratori per mancato pagamento delle imposte

Giovambattista Palumbo - Leggi e prassi

Mala gestio della società per mancato pagamento delle imposte da parte degli amministratori e responsabilità risarcitoria verso il Fisco che ne consegue: un approfondimento sul tema

Profili risarcitori della mala gestio degli amministratori per mancato pagamento delle imposte

La recente giurisprudenza ha affermato alcune rilevanti considerazioni in tema di mala gestio della società per mancato pagamento delle imposte da parte degli amministratori e conseguente responsabilità risarcitoria verso il Fisco.

Nel caso di specie, il Tribunale di Firenze, in parziale accoglimento della domanda proposta dal Fallimento, aveva condannato gli ex amministratori della società fallita al pagamento, a titolo di risarcimento del danno ex art. 146 L.F., di una somma pari a circa un milione di euro.

Mala gestio della società per mancato pagamento delle imposte da parte degli amministratori

Nel caso che analizziamo oggi - Sentenza n. 884/2023 della Corte di Appello di Firenze, Sez. spec. in materia di imprese - il Tribunale aveva riconosciuto la responsabilità dei predetti amministratori con riferimento alla sola ipotesi di omesso versamento delle imposte dovute per il periodo dal 2008 al 2012; condotta che aveva provocato alla società l’addebito di interessi e sanzioni nella misura appunto della condanna, mentre non aveva ritenuto la responsabilità degli amministratori per l’indebita prosecuzione dell’attività di impresa, in violazione degli artt. 2485-2486 c.c., per non avere essi tempestivamente rilevato una causa di scioglimento della società, rappresentata dalla impossibilità di conseguire l’oggetto sociale determinandone così l’incremento del deficit patrimoniale.

In sostanza, secondo il Tribunale, le sistematiche evasioni erano state deliberatamente decise dagli amministratori per risparmiare liquidità da impiegare diversamente. E tale condotta era illecita perché violativa di un preciso obbligo di legge, con conseguenti ricadute negative dell’illecito, ovvero l’applicazione delle sanzioni, che aveva causato un danno che doveva essere appunto risarcito dagli autori dello stesso illecito.

In merito, invece, alla domanda risarcitoria della curatela per aver determinato un aggravio del dissesto a causa della omessa, tempestiva messa in liquidazione della società per la perdita di una prospettiva di continuità aziendale (art. 2484 n.2 c.c.), il Tribunale aveva ritenuto di dover respingere la domanda, perché, diversamente dalla ipotesi di mancata messa in liquidazione per erosione del capitale sociale al di sotto di 1/3 dal limite legale (artt. 2482 ter e 2484 n.4 c.c.), la causa di scioglimento invocata dalla Curatela non era ravvisabile, dal momento che, finché la continuità aziendale è recuperabile con scelte di organizzazione aziendale e/o commerciali e se la società ha la possibilità di attingere a risorse finanziarie per attuarle, non vi è impossibilità definitiva di perseguire l’oggetto sociale.

Per affermare il contrario occorreva piuttosto individuare il momento esatto in cui nessun afflusso di risorse era più ipotizzabile e nessuna scelta organizzativa poteva più essere efficacemente adottata, laddove però, nella specie, pur presentando la società indici di impresa indubbiamente negativi, disponeva di un’azienda, era ancora presente sul mercato, aveva un capitale proprio ed aveva ancora la possibilità di ottenere credito.

Avverso questa decisione gli ex amministratori avevano interposto appello, rilevando che la società non aveva provveduto al pagamento delle imposte non per libera scelta, ma perché priva della liquidità necessaria.

Se era pacifico che la società fosse in crisi finanziaria e quindi priva della liquidità necessaria al pagamento del debito erariale, secondo gli appellanti, veniva quindi meno la possibilità di addebitare all’organo di gestione il mancato pagamento del debito stesso.

Gli amministratori non avevano infatti posto in essere operazioni volte ad evitare il pagamento di imposte e tasse, essendo state viceversa adottate tutte le iniziative consentite dalla legge per provvedere al versamento delle imposte dovute, tra cui anche la richiesta di rateizzazione del debito erariale (con prestazione di garanzie personali).

Gli appellanti rilevavano quindi che il mancato pagamento delle imposte non poteva essere imputato agli amministratori, i quali, proprio perché tale debito non imponeva agli stessi l’obbligo di mettere la società in liquidazione, non avevano violato alcuna norma di legge.

Infine, si deduceva, per poter imputare agli amministratori le sanzioni occorreva allegare e dimostrare che la società avesse la liquidità necessaria al pagamento dei debiti tributari, ma che gli amministratori non vi avevano provveduto, distogliendo tali somme e destinandole al pagamento di altri creditori, o per altre esigenze finanziarie della società.

Ma non essendo mai stati contestati agli amministratori addebiti specifici inerenti una (inesistente) “evasione”, non si vedeva perché il mancato pagamento dell’Erario costituisse un illecito, a differenza del mancato pagamento di altri creditori, consentendo, in quella fase, la piena discrezionalità degli amministratori di scegliere quali debiti pagare ed essendo insindacabile la valutazione a loro rimessa di quali fossero le insolvenze meno gravose per il proseguimento dell’attività aziendale.

Mala gestio della società: alcune considerazioni sul tema

Nel ritenere infondato l’appello la Corte rileva che il Tribunale aveva correttamente riconosciuto che una delle condotte di mala gestio contestate era il mancato pagamento di IVA e ritenute d’acconto, che aveva comportato un aggravamento del debito della società verso l’Erario.

In sostanza, il danno non era correlato alla mancata liquidazione della società, ma era connesso alla condotta di non aver pagato le imposte ex se, dovendo questa considerarsi una condotta rimproverabile in quanto contraria al canone di prudente gestione di cui all’artt. 2392-2394 c.c..

E ciò soprattutto considerando che le imposte delle quali la Curatela aveva contestato il mancato pagamento erano rappresentate dall’IVA incassata dai clienti e non versata all’Erario e dalle ritenute di acconto trattenute su compensi e retribuzioni, ossia somme che gli amministratori avrebbero dovuto accantonare per poi provvedere al loro versamento all’Erario alle scadenze.

Quale fosse il motivo, dunque, per cui gli amministratori avevano scelto di non pagare le tasse diventava in definitiva irrilevante, perché comunque erano stati preferiti creditori diversi dall’Erario.

Registrate una serie di perdite, a partire dall’esercizio 2008 fino al 2013, di importo rilevante, che avevano eroso tutte le riserve esistenti nonché quelle scaturenti dai versamenti a copertura perdite effettuati, gli amministratori, anziché procedere alla scioglimento della società per impossibilità di proseguire con successo l’attività sociale, avevano proseguito la gestione, provocando così un aggravio del dissesto e quindi un danno per la società indicato nell’importo di Euro 939.436,00, riferibile alle sole sanzioni fiscali, e nell’ulteriore, più rilevante, importo di Euro 4.381.422,00, riferibile alle perdite di esercizio, per un danno complessivo di Euro 5.320.858,00.

Il danno si configurava pertanto come un danno incrementale da dissesto, connesso cioè alla violazione da parte degli amministratori dell’obbligo specifico di cui agli artt. 2484 2485 c.c., e, sotto il profilo del danno cagionato dall’addebito delle sanzioni, assumeva altresì una connotazione autonoma.

Mentre infatti il danno incrementale da dissesto, per ciò che riguarda le perdite, è conseguenza esclusiva della omessa liquidazione della società, diversamente, il danno cagionato dall’addebito delle sanzioni è sempre conseguenziale ad una precisa scelta degli amministratori di non pagare le imposte.

Gli amministratori, sebbene la società versasse in evidente crisi di liquidità - e quindi in una situazione di insolvenza - avevano infatti deliberatamente scelto di far fronte ad altre esigenze economiche più immediate dell’impresa, pagando altri creditori sociali invece di pagare le imposte, essendo però evidente che, soprattutto per il mancato versamento dell’IVA e delle ritenute in acconto, questo avrebbero determinato l’inevitabile applicazione di sanzioni.

Quindi, un danno del tutto conseguenziale ad una condotta di non prudente gestione, consistita appunto nell’omesso pagamento dei tributi.

Del resto, aggiunge la Corte, se pure fosse stata incontestata la situazione di illiquidità, questa non avrebbe potuto considerarsi una causa esimente del mancato pagamento delle imposte, posto che la vita societaria era comunque proseguita e gli amministratori avevano utilizzato anche le somme versate dai clienti a pagamento dell’Iva per far fronte ad altre esigenze dell’impresa, quando invece avevano l’alternativa facoltativa (non giuridicamente obbligatoria), senz’altro più oculata e prudenziale, di porre in liquidazione la società per potere ripartire equamente le consistenze patrimoniali tra i creditori.

Infine, neppure rilevava l’ulteriore difesa secondo cui gli amministratori avevano effettuato continue iniezioni di liquidità per pagare i debiti societari, tra cui anche i debiti erariali, perché questa scelta era stata assunta ad esclusivo rischio degli amministratori di continuare nella gestione societaria, con tutte le conseguenze che tale scelta poteva implicare. Se la gestione doveva continuare in una situazione di illiquidità fronteggiata con le riserve e con le iniezioni di liquidità dei soci, tanto più questa doveva essere orientata allo scopo di evitare aggravi di costi, indirizzando quelle risorse a prevenire ulteriori sanzioni.

Con questo, conclude la Corte, non si vuole affermare che lo Stato assume de facto il ruolo di creditore privilegiato, ma solo sostenere che se la scelta dell’organo direzionale era quella di far proseguire la vita sociale essa avrebbe dovuto essere ancor più improntata ad una linea di prudente gestione, che impedisse quantomeno l’addebito di ulteriori spese, evitabili con l’assolvimento degli oneri fiscali.

In sostanza, procrastinare la vita sociale implicava comunque una gestione secondo i canoni prudenziali che fanno carico agli amministratori ex artt. 2392 e 2394 c.c., e questo criterio di diligenza non poteva certo dirsi rispettato trascurando il pagamento di un debito, con conseguenti, inevitabili, sanzioni per la società.

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