Lite temeraria: presupposti e funzionamento della condanna

Giovambattista Palumbo - Dichiarazioni e adempimenti

Come funziona la cosiddetta condanna per lite temeraria? Un'analisi alla luce della sentenza della Corte di Cassazione

Lite temeraria: presupposti e funzionamento della condanna

La condanna ex articolo 96, comma 3, c.p.c. per lite cosiddetta “temeraria” è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della “potestas agendi” (cfr. Sentenza n. 22405/2018 - Sentenza n. 9912/2018).

Così si è recentemente espressa la Suprema Corte, con la Sentenza n. 6048/2025.

I presupposti della lite temeraria: il caso di specie oggetto della sentenza

Nel caso di specie, il contribuente ricorreva avverso la sentenza della CTR, che aveva confermato la pronuncia di primo grado di rigetto del ricorso per l’annullamento di una intimazione di pagamento.

La CTR aveva ritenuto infondate le eccezioni inerenti all’irregolarità formale della notifica dell’intimazione alla decadenza dell’Amministrazione finanziaria dal potere di accertamento, alla mancata attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, alla inesistenza della notifica e della motivazione della cartella, anche riguardo alla quantificazione del credito accessorio per interessi, alla omessa notifica dell’avviso di accertamento e dell’iscrizione a ruolo, alla omessa sottoscrizione della cartella di pagamento, alla illegittimità dell’ingiunzione per mancata indicazione delle modalità di impugnazione in sede giudiziale e tutti i motivi relativi all’impugnazione dell’iscrizione a ruolo e della cartella di pagamento.

La ricorrente, dato atto che la notificazione al difensore nominato dalla Riscossione Sicilia Spa era invalida, per essere la medesima estinta ex lege a far data dal 30 settembre 2021, chiedeva di essere rimessa in termini ex art. 291 c.p.c. per provvedere alla notificazione alla Agenzia delle Entrate Riscossione, subentrata.

Quanto ai motivi di ricorso in cassazione, la contribuente ribadiva le eccezioni già formulate nei gradi di merito e contestava che la sentenza impugnata offriva una solo apparente e cumulativa motivazione di rigetto, lamentando l’omessa motivazione su ciascuna delle doglianze proposte e deducendo che la pronuncia anche sulla sussistenza della responsabilità processuale aggravata, ex art. 96, comma 3 c.p.c., appariva del tutto ingiustificata, anche avuto riguardo alla mancata risposta ai motivi di impugnazione, ritenuti dal giudice manifestamente pretestuosi.

Tanto premesso, per quanto di interesse, la Suprema Corte, dopo aver dichiarato i vari motivi di ricorso inammissibili o infondati, quanto alla censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 96, comma 3 c.p.c., per avere la CTR ritenuto pretestuosi tutti motivi di gravame, rileva che le Sezioni Unite hanno chiarito che:

“La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della «potestas agendi» con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Sentenza n. 22405/2018).”

Sia la mala fede che la colpa grave devono del resto coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta (Sentenza n. 9912/2018).

A ciò, rileva ancora la Corte, va aggiunto che:

“In materia di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., ai fini della condanna al risarcimento dei danni, l’accertamento dei requisiti costituiti dall’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero dal difetto della normale prudenza, implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, salvo - per i ricorsi proposti avverso sentenze depositate prima dell’11.9.2012 - il controllo di sufficienza della motivazione (Sentenza n. 19298/2016).”

L’applicazione richiede una condotta oggettivamente valutabile come abuso del processo

Tanto premesso, secondo la Cassazione, venendo al caso di specie, l’art. 96, comma 3 c.p.c. era stato correttamente applicato, anche tenuto conto che la CTR assumeva proprio la pretestuosità complessiva dell’azione.

Il che portava anche a respingere la richiesta formulata dalla parte ricorrente di rinnovazione della notifica del ricorso per cassazione all’Agenzia delle Entrate Riscossione subentrata alla Riscossione Sicilia Spa, anche considerato che:

“Il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Cass n. 12515/2018).”

A prescindere dallo specifico caso processuale, giova infine anche evidenziare quanto segue.

La consapevole pretestuosità dell’azione merita sempre di essere stigmatizzata, in termini di abuso del processo e lite temeraria, soprattutto quando emerga:

  • la palese inammissibilità degli atti processuali;
  • la palese assenza di presupposti per l’invocazione delle richieste in giudizio;
  • la palese infondatezza nel merito.

La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile anche d’ufficio, configura infatti, come visto, una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale.

La sua applicazione non richiede, quale elemento costitutivo, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, consistente nell’aver agito o resistito in giudizio pretestuosamente (cfr., Cass. n. 16898/2019 e Cass. n. 27623/2017).

In tali ipotesi, in sostanza, il ricorso integra un ingiustificato “sviamento del sistema giurisdizionale”, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma soltanto a fini dilatori e ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.

Tali tipi di comportamenti processuali non sono quindi più compatibili con un quadro ordinamentale, che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti (cfr. art. 6 CEDU) e, dall’altra, deve tenere anche conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e della necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie.

Anche nell’ambito del processo tributario, ex art. 15, comma 2 bis del Dlgs n. 546/92, si applicano del resto, espressamente, le disposizioni di cui all’articolo 96, commi primo e terzo, del codice di procedura civile, laddove, con l’articolo 9, comma 1, lettera f) del Dlgs 156/2015, è stato infatti modificato l’articolo 15 del Dlgs n. 546 del 1992, rafforzando il principio in base al quale le spese del giudizio tributario seguono la soccombenza ed introducendo appunto il comma 2-bis in tema di responsabilità aggravata.

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