Rapporto tra diritto comunitario e diritto convenzionale

Giovambattista Palumbo - Leggi e prassi

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15060/2023, ha trattato il delicato tema del rapporto tra diritto comunitario e Convenzioni internazionali partendo dall'analisi di un caso specifico

Rapporto tra diritto comunitario e diritto convenzionale

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 15060/2023, si è espressa sul delicato tema del rapporto tra diritto comunitario e Convenzioni internazionali.

Nel caso di specie, un fondo d’investimento mobiliare di diritto statunitense residente negli USA aveva detenuto, nei periodi di imposta compresi tra il 2007 ed il 2010, partecipazioni in diverse società italiane quotate in borsa, ricavandone dividendi sui quali le società partecipate avevano operato una ritenuta nella misura interna del 27 per cento, o nella misura del 15 per cento, conformemente a quanto prescritto dall’art. 10, comma 2, lett. b), della Convenzione stipulata tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America.

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Rapporto tra diritto comunitario e diritto convenzionale: il caso di specie

Il fondo aveva dunque presentato all’Amministrazione finanziaria, per i periodi di imposta dal 2007 al 2010, istanze di rimborso della maggiore tassazione indebitamente pagata attraverso la ritenuta del 15 per cento, che assumeva illegittima in quanto determinante, a danno dei percettori di dividendi non residenti, un trattamento irragionevolmente deteriore, e quindi discriminatorio ai sensi dell’art. 63 TFUE.

Un danno discriminatorio rispetto a quello riservato, nello stesso periodo, ai dividendi percepiti da un fondo d’investimento mobiliare residente nel territorio dello Stato italiano, che avrebbero invece subito, all’epoca, un’imposizione sostitutiva pari al 12,5 per cento (oppure al 5 per cento qualora il regolamento del fondo prevedesse che non meno dei due terzi del relativo attivo fossero investiti in azioni ammesse alla quotazione nei mercati regolamentati degli Stati membri dell’Unione Europea di società di piccola o media capitalizzazione), così come previsto dalla L. 23 marzo 1983, n. 77, art. 9 (nella versione vigente ratione temporis).

A fronte del silenzio dall’Ufficio sulle istanze di rimborso, il contribuente proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale, che lo rigettava, con sentenza poi confermata anche dalla Commissione Tributaria Regionale.

Il fondo proponeva infine ricorso per cassazione, censurando, per quanto di interesse, il capo della sentenza dedicato alla questione della discriminazione tra regimi fiscali in violazione del principio di libera circolazione dei capitali ex art. 63 TFUE, ed agli effetti connessi all’operare di una convenzione bilaterale per evitare le doppie imposizioni, caratterizzato, a suo avviso, da una motivazione apparente.

Con un secondo motivo si lamentava poi la violazione dell’art. 63 del TFUE e della Cost., art. 117, comma 1, assumendo che la CTR, nel ritenere applicabile la normativa nazionale che aveva recepito il trattato tra Italia e Stati Uniti contro le doppie imposizioni, aveva violato il principio comunitario di libera circolazione dei capitali, per come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea.

Secondo la Suprema Corte le censure di cui sopra erano fondate.

Diritto comunitario e diritto convenzionale nel caso di specie: il parere della Corte di Cassazione

In sostanza, evidenziano i giudici di legittimità, il contribuente richiamava l’art. 63 TFUE., il quale vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi, e tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi.

A tal proposito, la Suprema Corte ricorda di avere già affermato il seguente principio di diritto (Cass. n. 21481/2022):

“In tema di ritenute applicabili sui dividendi distribuiti, negli anni dal 2008 al 2010, da società residenti in Italia a fondi d’investimento mobiliare residenti negli Stati Uniti, l’art. 10, par. 2, lett. b) della Convenzione Italia U.S.A., per il quale l’imposta applicata dallo Stato di residenza della società che paga i dividendi “non può eccedere il 15 per cento dell’ammontare lordo”, va interpretato, secondo il canone di buona fede ex art. 31 del Trattato di Vienna ed i principi della fiscalità comunitaria ed internazionale, per evitare la violazione dell’art. 63 TFUE in tema di libera circolazione dei capitali tra Stati membri e paesi terzi, nel senso che anche ai dividendi pagati da società residenti ai fondi d’investimento mobiliare aperti statunitensi si applica l’aliquota del 12,5 per cento, cui erano assoggettati ratione temporis, sul risultato della gestione, i fondi comuni mobiliari aperti residenti ai sensi della l. n. 77 del 1983, art. 9, comma 2.”

L’art. 10 della Convenzione tra Italia e Stati Uniti d’America, ricorda la Cassazione, determina il limite massimo dell’aliquota applicabile alla ritenuta sui dividendi distribuiti da una società partecipata, residente in Italia, ad un soggetto partecipante, residente negli Stati Uniti.

Con riferimento ai fondi comuni di investimento in valori mobiliari aperti residenti, la L. 23 marzo 1983, n. 77, art. 9, primo e comma 2, applicabile ratione temporis (prima della sua soppressione, dal 1 luglio 2011, per effetto del D.L. 29 dicembre 2010 n. 225, art. 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10, che ha abrogato l’imposta sostitutiva sul risultato maturato dalla gestione del fondo, sostituendola con la ritenuta in capo al partecipante al momento della percezione dei dividendi) disponeva però che:

“1. I fondi comuni di cui all’art. 1 non sono soggetti alle imposte sui redditi. Le ritenute operate sui redditi di capitale si applicano a titolo d’imposta. Non si applicano la ritenuta prevista dal comma 2 dell’art. 26 del decreto del Presidente della Repubblica del 29 settembre 1973, n. 600, sugli interessi ed altri proventi dei conti correnti bancari, a condizione che la giacenza media annua non sia superiore al 5 per cento dell’attivo medio gestito, nonchè le ritenute del 12,50 per cento e del 5 per cento previste dai commi 3 e 3-bis dell’art. 26 del predetto decreto e dal comma 1 dell’art. 10-ter della presente legge. 2. Sul risultato della gestione del fondo maturato in ciascun anno la società di gestione preleva un ammontare pari al 12,50 per cento del risultato medesimo a titolo di imposta sostitutiva. La predetta aliquota è ridotta al 5 per cento, qualora il regolamento del fondo preveda che non meno dei due terzi del relativo attivo siano investiti in azioni ammesse alla quotazione nei mercati regolamentati degli Stati membri dell’Unione Europea (...).”

I dubbi sulla compatibilità con il diritto Europeo del regime fiscale applicato ai dividendi distribuiti in Italia ad organismi di investimento collettivo del risparmio (O.I.C.R.) esteri, stabiliti però in altri Stati membri dell’U.E. e nello S.E.E., per la possibile discriminazione rispetto al trattamento riservato a quelli nazionali, erano stati del resto già portati all’attenzione della Commissione Europea, anche se con riferimento ad una disciplina normativa nazionale in parte successiva e diversa rispetto a quella in vigore nei periodi in esame e con riferimento diretto al D.P.R. n. 29 settembre 1973 n. 600, art. 27, comma 3, a proposito di ritenuta, con l’aliquota del 27 per cento sugli utili corrisposti a soggetti non residenti nel territorio dello Stato.

E la Commissione aveva quindi avviato un’attività investigativa (cfr. EU PILOT 8105/15/TAXU), presso le autorità fiscali italiane, diretta a verificare la disponibilità delle stesse a conformare quella disciplina italiana ai principi comunitari, sfociata infine nelle modifiche operate dalla L. 30 dicembre 2020, n. 178, commi da 631 a 633, che, con riferimento ai dividendi percepiti dall’1 gennaio 2021, equipara il trattamento fiscale dei dividendi e delle plusvalenze conseguiti da organismi di investimento collettivo di diritto estero, istituiti in Stati membri UE o in Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico Europeo (S.E.E.) che consentono un adeguato scambio di informazioni, al trattamento fiscale dei dividendi e delle plusvalenze realizzati da analoghi organismi istituiti e residenti in Italia.

Tanto premesso, nel caso in esame, come visto, veniva in rilievo l’art. 63 TFUE, in materia di libera circolazione dei capitali, il quale dispone che:

“1. Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. 2. Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi.”

Pertanto, secondo il disposto di cui alla norma citata, tra le libertà fondamentali del Trattato, la libera circolazione dei capitali, si estende anche agli Stati terzi.

Rapporto tra diritto comunitario e diritto convenzionale: la giurisprudenza

Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia emerge peraltro che le misure vietate dall’art. 63 cit., in quanto restrizioni dei movimenti di capitali, comprendono quelle che sono idonee a dissuadere i non residenti dal compiere investimenti in uno Stato membro o a dissuadere i residenti di detto Stato membro dal compierne in altri Stati (Corte giustizia 22/11/2018, Sofina e a., C-575/17; Corte giustizia, 13/11/2019, College Pension Plan of British Columbia C-641/17; Corte giustizia, 30/01/2020, Köln-Aktienfonds Deka, C-156/17).

La circostanza che il contribuente non sia residente in uno Stato membro non preclude dunque, a priori, la rilevanza dell’art. 63 cit. (cfr., Cass. 06/07/2022, nn. 21454 , 21475, 21479, 21480, 21481, seguita da Cass. 07/07/2022 n. 21598), laddove la libertà di circolazione dei capitali subisce eccezioni solo nei casi disciplinati dall’art. 65 TFUE, in base al quale la disposizione di cui al precedente 63 TFUE non pregiudica il diritto degli Stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale.

La Corte di giustizia ha però chiarito che tale disposizione, costituendo una deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei capitali, deve essere oggetto di interpretazione restrittiva.

E pertanto essa non può essere interpretata nel senso che qualsiasi legislazione tributaria che operi una distinzione tra i contribuenti in base al luogo in cui essi risiedono o allo Stato in cui investono i loro capitali sia automaticamente compatibile con il Trattato.

Infatti, la deroga prevista dall’art. 65, paragrafo 1, lettera a), TFUE subisce essa stessa una limitazione per effetto dell’art. 65, paragrafo 3, TFUE, il quale stabilisce che le disposizioni nazionali di cui al paragrafo 1 non devono comunque costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti (Corte giustizia 24/11/2016, SECIL-Companhia Geral de Cal e Cimento SA, Causa C464/14).

In particolare, la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che le diversità di trattamento, per potersi considerare legittime, devono essere giustificate:

  • da ragioni di interesse generale;
  • devono riguardare situazioni che non siano comparabili.

E, uniformandosi alla giurisprudenza della Corte di giustizia, la Corte di Cassazione, con riferimento ad un fondo pensionistico con sede in un paese terzo (U.S.A.), in un caso in cui veniva ugualmente in rilievo l’art. 10 della Convenzione tra i due Paesi, ha già escluso la sussistenza di valide ragioni discriminatorie (Cfr. Cass. 01/09/2022, n. 25691. A diversa conclusione, invece, la Corte è giunta con riferimento a paese terzo incluso nella c.d. black list, Cass. 04/05/2023, n. 11719).

Neppure preclusiva, ai fini della rilevanza dell’art. 63, comma 1, TFUE, è inoltre la circostanza che il contrasto con il principio di libera circolazione dei capitali, e comunque la denunciata discriminazione, sarebbero effetto dell’applicazione di una norma pattizia (nella specie, l’art. 10 della Convenzione tra Italia e Stati Uniti in materia di doppia imposizione), dato che, la stessa Corte, in tema di concorso tra normativa convenzionale e diritto comunitario (proprio relativamente all’art. 10 della Convenzione tra Italia e Stati Uniti sulla doppia imposizione), ha già affermato che:

“occorre considerare il ruolo del diritto comunitario, il quale entra in gioco come terza dimensione nella geometria dell’ordinamento giuridico e svolge la sua influenza, pur con differente intensità, anche nell’interpretazione ed applicazione di trattati internazionali conclusi da Paesi membri della Comunità Europea, tra loro e con Paesi terzi.”

In particolare, afferma la Cassazione, i trattati internazionali conclusi dagli Stati membri con Paesi terzi successivamente all’entrata in vigore del Trattato di Roma devono conformarsi al diritto comunitario, primario e secondario.

Anche per i trattati coi Paesi terzi, pertanto, l’applicazione delle norme convenzionali nell’ambito intra comunitario e dell’ordinamento dello Stato membro contraente incontra i limiti del principio di non discriminazione e del rispetto delle libertà fondamentali garantite dal Trattato, con obbligo quindi del giudice nazionale e della pubblica amministrazione ad interpretare le disposizioni convenzionali in modo conforme al diritto comunitario stesso (cfr., Cass. 17/03/2000, n. 3119 e Cass. 12/03/2011, n. 3588).

In definitiva, nel caso in cui lo strumento convenzionale si ponga in contrasto con norme comunitarie direttamente applicabili, eventuali clausole convenzionali incompatibili, che carichino di un maggiore onere fiscale i contribuenti che operano a livello transnazionale, devono essere oggetto, da parte del giudice nazionale, di un tentativo di interpretazione adeguatrice, agendo il diritto comunitario quale fonte integrativa che colma le lacune della disciplina convenzionale, in una sorta di interpretazione comunitariamente orientata del testo convenzionale cfr. (Cass. 08/09/2022, n. 26536).

Nel caso in esame, in conclusione, la CTR aveva errato nel ritenere legittima l’applicazione dell’aliquota del 15 per cento in quanto oggetto di disposizione pattizia, errando, altresì, nell’attribuire al contribuente l’onere di fornire la prova di un trattamento effettivamente discriminatorio a prescindere dall’aliquota applicata.

Rilevava, invece, soltanto che lo spread tra l’aliquota massima del 15 per cento, applicabile, per effetto dell’art. 10, paragrafo 2, della Convenzione tra Italia e U.S.A., sui dividendi distribuiti da società domestiche al fondo di investimento non residente, e l’aliquota del 12,5 per cento a favore dell’omologo fondo di investimento residente, discostandosi dal principio comunitario di libera circolazione dei capitali e in assenza di cause di giustificazioni, penalizzava il fondo di investimento non residente.

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