Rilevanza accertativa delle rimanenze

La Corte di Cassazione lo scorso settembre è tornata nuovamente sulle differenze inventariali. Nel caso in esame si analizza la rilevanza accertativa delle rimanenze e si pone l'attenzione sulle scritture di magazzino

Rilevanza accertativa delle rimanenze

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 26484 del 13 settembre 2023, è tornata ad occuparsi di differenze inventariali.

Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado, la quale aveva a sua volta accolto il ricorso della società contribuente.

Rilevanza accertativa delle rimanenze finali e iniziali: il caso in esame

Il processo aveva ad oggetto tre avvisi di accertamento, con i quali l’Amministrazione finanziaria aveva ripreso, nei confronti della società, maggiori imposte per le annualità 2005, 2006 e 2007.

Le riprese traevano origine da un accertamento analitico-induttivo, ex art.39, comma 1 lett. d), del Dpr. n. 600/73, nell’ambito del quale veniva contestata alla contribuente l’avvenuta sottofatturazione, sulla base delle rilevate differenze tra rimanenze finali e iniziali, rispettivamente indicate in bilancio e nel libro inventari della società nel detto arco temporale.

La Commissione Tributaria Provinciale annullava gli atti impositivi, accogliendo la preliminare censura sollevata dalla società di violazione dell’art.12, comma 7, L. n.212/2000, per ritenuto mancato rispetto del contraddittorio procedimentale obbligatorio, oltre che, nel merito, per l’assenza di gravità, precisione e concordanza delle presunzioni addotte dall’Agenzia delle Entrate.

Il giudice d’appello riteneva poi superabile la questione preliminare, trattandosi di accertamento originato da verifiche c.d. “a tavolino” e in assenza di superamento della c.d. “prova di resistenza”, quanto all’IVA, ma, nel merito, riteneva comunque infondata la prospettazione dell’Amministrazione finanziaria.

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la violazione o falsa applicazione degli artt. 39, comma 1, lett. d), Dpr. n. 600/73, 2697 e 2729 cod. civ., nella parte in cui la Commissione Tributaria Regionale aveva ritenuto che l’impianto dell’accertamento fosse carente quanto alla prova della sottofatturazione, dedotta presuntivamente dall’Agenzia muovendo dalla alterazione della contabilità pacificamente posta in essere dalla società nei tre anni di imposta.

Rilevanza accertativa delle rimanenze: la sentenza delle Corte di Cassazione

Secondo la Suprema Corte la censura era fondata.

Evidenziano i giudici di legittimità che l’art. 92, comma 7, del Dpr. 917/1986, prevede che:

“Le rimanenze finali di un esercizio nell’ammontare indicato dal contribuente costituiscono le esistenze iniziali dell’esercizio successivo”

Avendo la Cassazione affermato il principio secondo cui (Cass. n. 22932/2018):

“in tema di determinazione del reddito d’impresa, trova applicazione il principio della cd. continuità di bilancio sancito dall’art. 92 del d.P.R. n. 917 del 1986, con la conseguenza che le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali di quello successivo, fermo restando, peraltro, il potere dell’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, di rideterminare il valore delle rimanenze medesime”

Tanto premesso, nel caso di specie, era pacifica la discrasia accertata dall’Agenzia delle Entrate tra il dettaglio delle rimanenze iniziali, indicate nel libro inventario, e i dati inseriti in bilancio e nella dichiarazione dei redditi della società, laddove la contabilizzazione di rimanenze finali in misura superiore a quella reale e dettagliata nell’inventario aveva creato un’apparenza di minor volume delle vendite, idonea a fondare la presunzione di occultamento dei ricavi ai fini delle II.DD. e di mancato versamento dell’IVA corrispondente.

Tale alterazione nelle scritture si era del resto protratta per tutti gli anni di imposta oggetto di contestazione, incidendo, tra l’altro, nel riporto dei dati da un’annualità a quella successiva.

Pertanto, concludeva la Corte di Cassazione, attraverso l’artificio contabile descritto non solo, per il principio di continuità di bilancio, la società aveva potenzialmente goduto di un eguale importo da contabilizzare come componente negativo di reddito l’anno successivo, ma aveva anche mancato di assolvere l’IVA sui maggiori importi contabilizzati.

E tale condotta non risultava giustificata in alcun modo dalla stessa società, se non con il riferimento alla responsabilità del professionista incaricato, profilo che comunque non esimeva da responsabilità la dichiarante per evidente culpa in eligendo e in vigilando.

In definitiva, conclude la Cassazione, la condotta posta in essere era idonea a fondare le presunzioni di cui all’accertamento analitico-induttivo ex art. 39, comma 1, lett. d, del Dpr. n. 600 del 1973 e rilevava sia ai fini della determinazione del reddito di impresa, per omessa contabilizzazione di ricavi, sia ai fini IVA, essendo la contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per il comportamento tenuto dalla contribuente, che, alterando i valori indicati in bilancio rispetto al dettaglio degli inventari, era idoneo a generare presunzioni semplici, ossia gravi, precise e concordanti, di evasione di imposta per occultamento di ricavi dovuti alla sottofatturazione.

Contabilizzazione delle rimanenze: sono fondamentali anche le scritture di magazzino

Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali giova anche evidenziare quanto segue, con particolare riferimento alla rilevanza accertativa delle scritture di magazzino, inventario in testa.

È infatti legittimo l’accertamento induttivo del reddito d’impresa qualora l’inventario ometta di indicare e valorizzare le rimanenze con raggruppamento per categorie omogenee.

E tale incompletezza contabile e l’inattendibilità scritturale che ne deriva giustificano anche l’accertamento induttivo puro, ex art. 39, comma 2, lett. d, Dpr. n. 600 del 1973, con dunque applicazione di presunzioni c.d. supersemplici, cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (cfr., Cass., n. 5995 del 08.03.2017).

In un tale contesto, nell’ambito di una verifica, dall’esame del libro degli inventari, può dunque, tra le altre, emergere che il contribuente:

  • non ha trascritto il dettaglio delle rimanenze;
  • non ha indicato il metodo di valutazione adottato per le rimanenze, sia iniziali che finali.

L’analisi di magazzino mira del resto a consentire di associare i beni ivi indicati con quelli riportati nelle fatture passive.

I beni possono essere infatti indicati in modo molto generico, senza specificare l’articolo e le sue caratteristiche e tali carenze potrebbero impedire l’individuazione del relativo costo dai documenti passivi.

Se poi il contribuente volesse dimostrare la illegittimità della ricostruzione dell’Ufficio e delle prove utilizzate, in ottemperanza al suo specifico onere della prova, dovrebbe comunque mettersi (Cass. n. 2891/2002):

“nelle condizioni di attivarsi e di dimostrare o l’impossibilità di un loro utilizzo nella fattispecie concreta, ovvero l’inaffidabilità del risultato ottenuto, eventualmente confermando al contempo con altre presunzioni la validità del proprio operato.”

L’omissione delle scritture ausiliarie di magazzino, generando un impedimento alla corretta analisi dei contenuti dell’inventario, influisce inoltre sulla possibilità per gli accertatori di ricostruire analiticamente i ricavi di esercizio e determina perciò quella inattendibilità complessiva delle scritture contabili, che è presupposto normativamente previsto ai fini del ricorso alla modalità induttiva dell’accertamento (Cass. n. 14501/2015; Cass. n. 7653/2012; Cass. n. 16499/2006; Cass. n. 13816/2003).

In un tale scenario e sempre sotto il profilo della corretta individuazione e contabilizzazione delle rimanenze, si pone infine anche il tema delle differenze inventariali, che presuppongono uno scostamento, individuato in sede di verifica, tra varie fonti di informazione, non necessariamente l’inventario fisico, ma anche elementi documentali da cui sia possibile ricostruire le quantità entrate, uscite, o giacenti.

In questi casi gli sfasamenti possono quindi essere rilevati non solo attraverso una conta fisica dei beni, ma anche attraverso un confronto cartolare tra “rimanenze registrate” e quantità ricostruite in base alle fatture di acquisto e di vendita.

E a questo punto la prova contraria (non libera, ma vincolata) sarà a carico del contribuente.

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