La dichiarazione dei redditi non costituisce la fonte dell'obbligo tributario. Sulla questione si è espressa la Corte di Cassazione che ha trattato il tema degli inutili inesistenti e la ripetibilità dell'imposta
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15211/2023, si è espressa in tema di utili inesistenti e ripetibilità dell’imposta.
Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva rigettato l’appello proposto da una società contro la sentenza di primo grado, che aveva a sua volta rigettato l’impugnazione del diniego dell’istanza di rimborso dell’imposta versata, per Irpeg, Irap e imposta sostitutiva in relazione all’anno di imposta 2002, asseritamente in misura maggiore di quanto dovuto, in conseguenza dell’evidenziazione in bilancio di utili fittizi confluiti nella dichiarazione dei redditi.
La sentenza della CTR riguardo il pagamento di imposte su utili inesistenti: il caso in esame
In particolare, la CTR evidenziava il fatto che non fosse contestato che la società avesse esposto in bilancio e dichiarato utili non conseguiti e pagato le relative imposte.
Osservavano però i giudici d’appello che il pagamento di imposte su utili inesistenti era stato voluto ed accettato dalla società nell’ambito di un disegno criminoso, volto a dare all’esterno un’immagine di solidità, e che ciò non configurava alcuna delle ipotesi che davano luogo al diritto al rimborso: errore, duplicazione di versamento e inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.
In particolare, tale ultima ipotesi ricorrerebbe infatti solo nel caso in cui comunque vi sia stato un errore del contribuente nell’interpretazione della legge che abbia determinato un versamento di imposte non dovute, laddove, d’altro canto, esisterebbe un principio generale nel diritto tributario secondo il quale il contribuente che pone in essere condotte delittuose, o comunque illecite, risponde delle conseguenze del proprio operato ed è quindi tenuto al pagamento dei tributi anche ove questi abbiano una base imponibile inesistente.
Né, ad avviso dei giudici di appello, poteva avere rilevanza nel caso di specie la giurisprudenza della Corte in tema di emendabilità della dichiarazione, che concerne solo il caso del contribuente caduto in errore in buona fede e non l’autore di un illecito.
Inoltre la dichiarazione non poteva comunque essere emendata neppure facendo riferimento alla disciplina del Dpr. n. 322 del 1998, art. 2, commi 8 e 8-bis, in quanto, nella specie, non sussisteva un errore, era ormai decorso il termine di decadenza e comunque la stessa costituiva una dichiarazione di volontà non emendabile.
Infine, l’istanza di rimborso non poteva in ogni caso sostituire la dichiarazione integrativa omessa.
La risposta della società e il ricorso alla Cassazione
Contro tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione, censurando, tra le altre, la decisione laddove la CTR aveva affermato che l’inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento doveva presupporre un errore incolpevole del contribuente e che in caso di dichiarazione compiuta nell’ambito di un comportamento illecito la parte fosse comunque tenuta al pagamento delle imposte, anche in assenza della relativa base imponibile, non potendosi invece, ad avviso della ricorrente, configurare, in caso di imposizione diretta, alcuna ipotesi di responsabilità oggettiva, svincolata dall’esistenza di un reddito effettivo.
La ricorrente specificava, peraltro, che, nel caso di specie, l’insussistente reddito tassato non derivava da costi appostati in contabilità per l’acquisto di merci inesistenti, di cui si fosse poi simulata la vendita a terzi con indicazione di ricavi altrettanto inesistenti, ma da una posta di ricavi per un contratto fittizio di licenza e know how, senza alcuna imputazione in bilancio di costi inesistenti.
Con altro motivo di impugnazione la ricorrente deduceva poi la violazione del Dpr. n. 602 del 1973, art. 38 e del Dpr. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8-bis, laddove la CTR aveva ritenuto che l’istanza di rimborso non potesse sostituire l’omessa dichiarazione integrativa e che la dichiarazione non fosse emendabile in considerazione della sua natura di dichiarazione di volontà.
Secondo la Suprema Corte le due censure, da esaminarsi congiuntamente in quanto connesse, erano fondate.
Evidenziano i giudici di legittimità che il Dpr. n. 602 del 1973, art. 38, autorizza la presentazione dell’istanza di rimborso, oltre che in caso di errore materiale, in quello di “inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento”.
La Suprema Corte ricorda che Cass. n. 10693/2019 ha a tal proposito già riconosciuto la ripetibilità dell’importo versato anche nel caso in cui il versamento oggetto del rimborso domandato sia conseguente ad un comportamento volontario del contribuente.
Anche la fattispecie in cui l’istante chiede il rimborso per l’inesistenza fin dall’origine dell’obbligo fiscale ricade poi nel raggio di applicazione del Dpr. n. 602 del 1973, art. 38, comma 1 (cfr. Cass. n. 8516/2019).
In sostanza, rileva la Corte, le norme sulla imposizione diretta, ispirate al principio costituzionale della capacità contributiva, non contemplano ipotesi di responsabilità fiscale oggettiva, indipendente cioè dall’esistenza di un reddito effettivo (in tal senso Cass. n. 23879/2019; Cass. n. 19191/2019; Cass. n. 27569/2008, quest’ultima in riferimento proprio al caso, analogo a quello in esame).
Tale ipotesi, invece, si rinviene nella disciplina dei tributi indiretti, come l’IVA, che, ai sensi del Dpr. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, è dovuta per l’intero ammontare della fattura anche se emessa per operazione inesistente; o l’imposta di registro, dalla quale, ex Dpr. n. 131 del 1986, art. 38, non è dispensato l’autore di atto nullo o annullabile.
Oggetto dell’imposizione diretta non possono essere invece i ricavi - pacificamente inesistenti - risultanti da una contabilità riconosciuta fittizia, o ulteriormente desumibili da appostazioni passive ugualmente false. E se un reddito illecito effettivamente esiste, questo potrebbe essere determinato solo sinteticamente, in base ai dati ed alle notizie comunque venuti in possesso dell’ufficio, che, in tal caso, è autorizzato a prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili, e ad avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
D’altro canto, rileva la Corte, l’affermazione della ripetibilità dell’imposta non dovuta (e non solo di quella versata in conseguenza di un errore di versamento) è connessa all’affermazione per cui la dichiarazione dei redditi non costituisce la fonte dell’obbligo tributario, né produce effetti assimilabili a quelli di una confessione, ma rappresenta unicamente un momento essenziale del procedimento di accertamento e riscossione delle imposte sul reddito e non può precludere al contribuente - anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva - la dimostrazione, con le forme e nei termini previsti dal citato Dpr. n. 602 del 1973, art. 38 e con onere della prova a suo carico, dell’inesistenza, anche parziale, di presupposti di imposta erroneamente dichiarati (cfr. Cass. n. 15063/2002; successivamente, tra le tante, Cass. n. 18163/2002; Cass. n. 14932/2011; Cass. n. 4578/2015).
Le dichiarazioni fiscali possono essere emendate: le conclusioni della Corte di Cassazione
Le dichiarazioni fiscali, in particolare quelle dei redditi, non sono del resto atti negoziali o dispositivi, né costituiscono titolo dell’obbligazione tributaria, ma sono mere dichiarazioni di scienza, sicché possono, in linea di principio, essere liberamente emendate e ritrattate dal contribuente, anche in sede processuale (Cass. 04/02/2011, n. 2725), salvi i casi in cui vengano in rilievo delle scelte negoziali, come quando il legislatore subordina la concessione di un beneficio fiscale ad una precisa manifestazione di volontà del contribuente.
Né, infine, rileva la Corte, l’istanza di rimborso è preclusa dall’omessa presentazione della dichiarazione integrativa ai sensi del Dpr. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8-bis, operando la prima nell’ambito dell’accertamento del debito tributario e la seconda nell’ambito del procedimento di riscossione (così Cass. n. 19002/2019; Cass. n. 7389/2019; Cass. n. 27583/2018; Cass. n. 11507/2018).
Da tali considerazioni, inevitabilmente connesse in quanto tutte ispirate al principio di capacità contributiva previsto dalla Cost., art. 53, secondo la Cassazione discende dunque che il contribuente che abbia, in dichiarazione, assoggettato propri redditi (inesistenti) ad imposta non dovuta può chiederne la restituzione nel termine previsto dal Dpr. n. 602 del 1973, art. 38, non essendo ciò precluso dalla mancanza di una dichiarazione integrativa e non avendo tale comportamento valore di una scelta negoziale e volontaria.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Utili inesistenti e ripetibilità dell’imposta