Processo tributario: quali sono gli atti impugnabili?
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 5174/2023, è tornata sul sempre delicato tema degli atti impugnabili nel processo tributario.
Nel caso di specie, il contribuente aveva proposto istanza di accesso alla procedura di collaborazione volontaria, di cui all’art. 1, primo e secondo comma, L. n. 186/2014 (c.d. Voluntary Disclosure), ottenendo un diniego dall’Amministrazione finanziaria, tempestivamente impugnato avanti al giudice, che aveva però dichiarato inammissibile il ricorso, con pronuncia poi confermata in appello, ritenendo che tale atto di diniego non rientrasse nell’elencazione degli atti impugnabili di cui all’art. 19 Dlgs. n. 546/1992.
Il contribuente proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 19 del Dlgs. n. 546/92, e lamentando che la Commissione Tributaria Regionale aveva erroneamente ritenuto non impugnabile la comunicazione di diniego in esame.
Secondo la Suprema Corte la censura era fondata.
Atti impugnabili nel processo tributario: la sentenza della Corte di Cassazione n. 5174 del 2023
Evidenziano i giudici di legittimità che risulta consolidato l’orientamento giurisprudenziale per cui, in tema di contenzioso tributario, l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del Dlgs. 31 dicembre 1992 n. 546 ha natura tassativa, ma non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l’Amministrazione finanziaria porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche, essendo in tali casi possibile un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia, in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione anche dell’allargamento della giurisdizione tributaria, che è stato operato con la Legge 28 dicembre 2001 n. 448 (cfr., Cass., n. 12150/2019; n. 1230/2020; n. 15318 del 2021).
Per altro verso, rileva la Cassazione, è stata in particolare riconosciuta la facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore, che, esplicitando concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è naturaliter preordinata, si vesta della forma autoritativa “tipica” di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 del Dlgs. 31 dicembre 1992 n. 546.
Sorge, infatti, in tali casi, in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione della notizia, l’interesse, ex art. 100 cod. proc. civ., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale, comunque, di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva (cfr., Cass., n. 17010/2012).
Ne consegue, conclude la Corte, che il contribuente ha la facoltà, non l’onere, d’impugnazione di atti diversi da quelli specificamente indicati nell’art. 19 cit., il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento.
Ciò comporta che la mancata impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dall’art. 19 del Dlgs. 31 dicembre 1992 n. 546 non determina, in ogni caso, la non impugnabilità (ossia la cristallizzazione) di questa pretesa, che può essere successivamente reiterata in uno degli atti tipici previsti dallo stesso art. 19 (in termini: Cass., n. 21045/2007; Cass., S.U. n. 10672/2009; Cass., n. 14373/2010; n. 8033/2011; n. 10987/2011; n. 16100/2011; n. 3775/2018).
In applicazione di questo principio è stata, per esempio, ritenuta immediatamente impugnabile dal contribuente anche la comunicazione d’irregolarità, ex art. 36-bis, comma 3, del Dpr. 29 settembre 1973 n. 600 (c.d. avviso bonario) (Cass., n. 3315/2016).
La Cassazione ha poi anche affermato che le risposte rese dall’Amministrazione finanziaria agli atti di interpello di cui all’art. 11 della Legge 27 luglio 2000 n. 212 non sono impugnabili, trattandosi di meri pareri che non incidono direttamente in danno del contribuente, salvo però quelli resi a seguito di richiesta di disapplicazione di norme antielusive, i quali, anche secondo la disciplina anteriore alle modifiche introdotte dal Dlgs. 24 settembre 2015 n. 156, possono essere impugnati in quanto contenenti una compiuta pretesa tributaria (Cass., n. 32962/2018; Cass., n. 15457/2019).
L’orientamento è stato corroborato anche in relazione all’autonoma impugnabilità del parere fornito dal Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate sull’istanza del contribuente per la disapplicazione della disciplina delle società di comodo (Cass., n. 1230/2020).
In definitiva, concludono i giudici, l’impugnabilità del provvedimento di rigetto relativo all’istanza di collaborazione volontaria di cui alla legge n. 186/2014 consegue alla configurabilità di tale procedura come strumento di definizione agevolata, che, si fa notare, presuppone già un debito tributario.
Atti impugnabili nel processo tributario: sotto la lente della Cassazione la domanda di collaborazione volontaria
La Collaborazione volontaria (cd. Voluntary Disclosure) è del resto una procedura con cui il contribuente, autodenunciandosi, dichiara al fisco “attività finanziarie e patrimoniali costituite o detenute fuori dal territorio dello Stato” non indicate nella dichiarazione (art. 5 quater/1 lett. a): cd nero transfrontaliero), ovvero redditi occultati in Italia (art. 1/2-3-4 Legge cit.: cd. nero domestico).
Gli effetti della detta autodenuncia sono molteplici, ma, i più importanti possono essere così riassunti:
- a) regolarizzazione della propria situazione patrimoniale e reddituale;
- b) corresponsione integrale delle imposte e degli interessi relativi ai redditi non dichiarati;
- c) riduzione delle sanzioni amministrative applicabili;
- d) non punibilità dei reati di di omessa o infedele dichiarazione, di dichiarazione fraudolenta con fatture false o altri artifici, di omesso versamento di ritenute certificate, di omesso versamento IVA e di quelli di cui agli artt. 648 bis, 648 ter, 648 ter 1 cod. pen.
Ove la dichiarazione sia infedele, l’Agenzia delle Entrate esercita peraltro, nuovamente, il suo autonomo potere di accertamento con la revoca ex tunc dei suddetti benefici.
La procedura di Collaborazione volontaria, quindi, rileva la Cassazione, ha, come effetto principale, proprio quello di fare emergere il maggior reddito occultato, su cui il contribuente deve pagare le imposte e gli interessi che avrebbe dovuto pagare, oltre le sanzioni in misura ridotta.
Per quanto sopra, ne consegue dunque che il rigetto della domanda di Collaborazione volontaria è da ritenersi equiparabile al rigetto di una domanda di definizione agevolata di rapporti tributari, espressamente contemplata dall’art. 19 del Dlgs. n. 546/92.
In altri termini, si tratta sempre di atti incidenti su rapporto tributario impositivo, con un interesse attuale, concreto ed economicamente valutabile (art. 100 c.p.c.) del contribuente ad ottenere una diversa definizione del rapporto tributario.
Non si tratta, quindi, evidenzia la Corte, di attività di interpretazione analogica, di cui all’art. 12 disp. prel. c.c., vietata per le norme penali, tributarie e speciali dal successivo art. 14, bensì di interpretazione estensiva, pacificamente ammissibile ove gli istituti abbiano la medesima ragione d’essere e mirino allo stesso scopo agevolativo.
Nel caso in esame, pertanto, i giudici di merito, qualificando atto non autonomamente impugnabile la comunicazione di diniego alla istanza di collaborazione volontaria e limitandosi ad affermare l’inesistenza al momento della detta comunicazione di “alcun rapporto tributario”, non si erano attenuti ai suddetti principi.
In tema di contenzioso tributario, in sostanza, l’impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dall’art. 19 del Dlgs. n. 546 del 1992, il quale, tuttavia, abbia natura sostanziale di atto impositivo, è una facoltà e non un onere, il cui mancato esercizio non preclude comunque la possibilità d’impugnazione dell’atto successivo (cfr., Cass. n. 14675/16; in termini, anche Cass. n. 26129/17).
Si tratta del sistema della cosiddetta “tutela differita”, che sposta la tutela giurisdizionale in corrispondenza del ricorso avverso un atto successivo, funzionalmente e causalmente collegato.
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